Una gaffe o cosa’altro? Com’è possibile che un imputato in un processo di mafia e un testimone “qualificato", entrambi carcerati, vengano condotti in Tribunale con lo stesso mezzo della polizia penitenziaria? Entrando, quindi, in contatto. E’ accaduto prima dell'ultima udienza del processo che davanti il Tribunale di Marsala vede imputati tre personaggi coinvolti nell’operazione antimafia “The Witness” (9 marzo 2015). Naturalmente, la testimonianza è saltata. A rinunciarvi è stato il pubblico ministero della Dda Carlo Marzella, che ha fatto notare quanto era poco prima accaduto. A deporre, ammesso che volesse parlare, doveva essere il boss marsalese Francesco De Vita, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Giovanni Zichittella (15 giugno 1992), padre dello stiddaro Carlo Zichittella, poi pentitosi. De Vita è stato “tradotto” con lo stesso mezzo con cui è arrivato Vincenzo Giappone, 54 anni, pastore incensurato, imputato nel processo “The Witness”. Rinunciando al teste, il pm Marzella, però, ha chiesto, in compenso, che vengano acquisiti i verbali con le dichiarazioni a suo tempo rese da De Vita, che poi, però, si è pentito della decisione di iniziare a collaborare con la giustizia. Alla richiesta del pm si è associato l’avvocato di parte civile Peppe Gandolfo. Si sono, invece, opposti i legali della difesa. Il Tribunale comunicherà la sua decisione nell’udienza del 18 gennaio. Oltre a Vincenzo Giappone, per associazione mafiosa sono imputati Antonino Bonafede, di 80 anni, pastore e vecchio “uomo d’onore”, Martino Pipitone, di 65, ex impiegato di banca in pensione, entrambi in passato già arrestati per mafia. Dei tre, solo Pipitone - accusato anche di intestazione fittizia di una società ad altra persona “per evitare eventuale confisca da parte dello Stato” - è tornato in libertà. Per la Dda, Antonino Bonafede avrebbe “ereditato” il bastone del comando in seno alla famiglia mafiosa marsalese dal figlio Natale, in carcere dal gennaio 2003 con una condanna definitiva all’ergastolo. Secondo l’accusa, il nuovo anziano “reggente”, al quale nel gennaio 2015 sono stati confiscati beni per oltre 4 milioni di euro, assieme a Giappone “provvedeva alla raccolta del denaro provento di attività illecite, poi conferito al “mandamento mafioso” di Mazara e ai familiari di affiliati detenuti, come Amato Giacomo, uomo d’onore marsalese condannato all’ergastolo”. Giappone sarebbe stato il cassiere della “famiglia” e il “primo collaboratore” di Bonafede senior. Martino Pipitone è definito “esponente di rilievo della consorteria mafiosa marsalese” e avrebbe esercitato la sua “sfera d’influenza nel centro storico”. I militari, poi, sono riusciti a monitorare “il passaggio del denaro tra gli affiliati, che era solitamente contenuto in buste di carta e indicato dagli stessi con l’appellativo di malloppo”. La famiglia mafiosa, inoltre, al fine di mantenere il controllo del territorio, si sarebbe interessata al recupero di refurtiva sottratta a persone vicine all’organizzazione criminale, a dirimere controversie tra agricoltori e pastori e a contrastare l’apertura di nuove attività commerciali che avrebbero potuto fare concorrenza a quelle di soggetti mafiosi o vicini a Cosa Nostra. Dalle indagini, infine, è emersa l’appartenenza alla famiglia mafiosa Baldassare Marino, assassinato a colpi di arma da fuoco, nell’entroterra di Strasatti, il 31 agosto 2013. Coinvolti nell’indagine della Dda anche il 48enne fabbro marsalese Sebastiano Angileri e la moglie Vita Maria Accardi, il primo accusato favoreggiamento e intestazione fittizia di beni, la seconda solo di intestazione fittizia. Angileri fu arrestato e poi scarcerato, la moglie, invece, soltanto denunciata. Entrambi hanno chiesto di essere giudicati con rito abbreviato e il gup di Palermo Nicola Aiello li ha condannati a due anni (Angileri) e a un anno e 4 mesi (Accardi) di reclusione. Escludendo, però, l’aggravante di attività in favore della mafia. Si sarebbe trattato, dunque, di favoreggiamento personale semplice.