Esclusivo. Trentasei anni dopo l'omicidio insoluto del presidente della Regione Sicilia, i pm di Palermo stanno valutando nuovi elementi per riaprire l'inchiesta
PALERMO - Fra i delitti eccellenti di Palermo è il più inviolabile. Un segreto così protetto che, dopo trentasei anni, non conosciamo neanche il nome di chi ha sparato. Probabilmente un sicario che non era di mafia, voluto giù in Sicilia per un omicidio di alta mafia. Proprio un mistero. Come se Cosa Nostra non avesse un esercito di sperimentati killer a servizio, come se per quella circostanza i boss dovessero per forza assoldare un assassino venuto da lontano.
Ideato per farlo apparire come un "caso chiuso" già prima dello svolgimento delle indagini - fra l'altro estremamente accurate, quelle dell'allora sostituto procuratore Pietro Grasso e del giudice istruttore Giovanni Falcone - l'omicidio di Piersanti Mattarella forse non resterà per sempre sepolto nei sotterranei del Palazzo di Giustizia. Nonostante il tempo passato, intorno al delitto siciliano più impenetrabile ci sono "indizi interessanti" che in procura "stanno valutando" e che potrebbero portare alla riapertura ufficiale dell'inchiesta. Tracce su un crimine politico che in Sicilia ha provocato drammatici contraccolpi, come quelli che l'Italia ha vissuto con la morte di Aldo Moro.
È un ritorno alla "pista nera", intesa come manovalanza al servizio di "centri di potere occulti". E il fallito attentato all'Addaura contro Falcone - chissà, se si tratta soltanto di una semplice coincidenza temporale? - è il punto di partenza delle nuove indagini.
Piersanti Mattarella, quindicesimo Presidente della Regione siciliana, ucciso il giorno dell'Epifania del 1980 in via Libertà, il democristiano che sognava "una Sicilia con le carte in regola" e - proprio come Moro, di cui era ritenuto il naturale successore - voleva nell'isola l'allargamento della sua maggioranza di governo al Partito Comunista. Piersanti Mattarella, i soliti boss della Cupola condannati come mandanti e neanche un killer come colpevole.
Ci sono pochi precedenti nella casistica dei grandi delitti siciliani. Anzi, ce n'è uno solo: l'omicidio di Michele Reina, il segretario provinciale della Dc assassinato il 9 marzo del 1979, appena dieci mesi prima di Mattarella. Una straordinaria anomalia che accomuna il destino dei due uomini politici: non si sa chi li abbia materialmente uccisi. Ma c'è altro che lega quei delitti: il possibile movente. Anche Reina era per il "compromesso storico" al Comune di Palermo. E, come vedremo, per entrambi gli omicidi ci sono riconoscimenti fotografici che sono serviti a niente.
In queste ultime settimane c'è fermento nelle stanze della procura della repubblica, chi vorrebbe subito compiere un atto istruttorio e chi aspetta "qualche indicazione più concreta". Le complicazioni non mancano. Ci sono condanne già passate in giudicato, assoluzioni della Cassazione. Saranno davvero riaperte le indagini? Risponde il procuratore capo della repubblica di Palermo Francesco Lo Voi: "Se dovessero emergere spunti utili ovviamente li prenderemmo in considerazione, sia che essi confermino le conclusioni già raggiunte dal processo, sia che esse dovessero condurre eventualmente a conclusioni diverse".
La comprensibile cautela del procuratore è superata di un piccolo passo da un prudente annuncio di Francesco Crescimanno, l'avvocato che rappresenta da sempre la famiglia Mattarella: "Mi preparo a mettere insieme tutta una serie di elementi e spero di presentarli in procura per far riaprire il caso".
Quali sono gli "elementi" che potrebbero condurre a nuove investigazioni? In quale "rilettura" delle carte - trenta faldoni, decine di migliaia di pagine - si sono individuati quegli "spunti investigativi" per riesumare l'inchiesta sull'omicidio dell'Epifania dell'80?
Come se già non bastassero i tanti segreti intorno all'Addaura - l'uccisione del poliziotto Nino Agostino, la scomparsa dell'agente dei servizi segreti Emanuele Piazza, le "presenze estranee" a Cosa Nostra sul luogo del fallito attentato - è proprio da lì che dovrebbe ripartire l'indagine.
È nei giorni fra la primavera e l'estate del 1989 - quando davanti alla villa di Giovanni Falcone collocano cinquantasei candelotti di dinamite per ucciderlo - che il giudice punta decisamente sui "neri" Valerio Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, come autori materiali dell'omicidio del Presidente della Regione.
Se fino a quel momento la considerava un'ipotesi come tante, in quei giorni - la bomba dell'Addaura è datata fra il 20 e il 21 giugno - Falcone accelera gli atti istruttori sui Nuclei Armati Rivoluzionari e chiede ai pm titolari dell'indagine d'intensificare l'attività in quella direzione. Falcone si convince della loro colpevolezza - e dei legami dell'estrema destra romana con la Banda della Magliana (per intenderci, l'ambiente dove Massimo Carminati è stato allevato) e con la Cupola rappresentata nella capitale da Pippo Calò - in quelle settimane del giugno 1989. Solo un caso? I due "neri" vengono poi rinviati a giudizio, processati e assolti nonostante le dichiarazioni di un paio di pentiti del terrorismo nero. Fra loro anche Cristiano Fioravanti, il fratello di Giusva, che poi però ritratterà.
Nell'inchiesta Mattarella è presente tutto il repertorio degli altri grandi delitti: testi imbeccati, prove false, depistaggi. La crescente agitazione davanti all'ipotesi di una riapertura non è circoscritta però solo alle ombre o alla sterzata investigativa di Falcone dell''89. C'è qualcosa di più, qualcosa che porta sempre alle analogie con il delitto Reina.
Sembrano omicidi fotocopia. Uno ritenuto l'anticipazione dell'altro, una sorta di "segnale non raccolto" dentro una Democrazia cristiana che in quella stagione doveva fare i conti con gente come Vito Ciancimino. Sia il segretario provinciale della Dc che il Presidente della Regione, don Vito lo avevano individuato come il nemico numero 1 dentro il partito. Era potentissimo e, come avrebbe spiegato poi Tommaso Buscetta, "completamente nelle mani dei Corleonesi". Ma molte delle confessioni dei mafiosi pentiti sulla morte del Presidente - tranne quella di Francesco Marino Mannoia, che parla di un incontro fra il capo di Cosa Nostra Stefano Bontate e il senatore Andreotti alcuni mesi dopo quel 6 gennaio - si sono rivelate confuse e spesso contraddittorie. Un avvenimento fuori dalla loro portata, deciso a piani superiori.
E infatti, tanti sono gli elementi che allontanano da una matrice puramente mafiosa i due delitti e, contemporaneamente, li avvicinano uno all'altro. Per esempio i testimoni che indicano il "presunto" killer. E' sempre lui: Giusva Fioravanti.
Delitto Mattarella, torna la pista nera: ecco tutti i sospetti
Il 6 gennaio scorso Repubblica mostra per la prima volta il fotofit del sicario realizzato il giorno del delitto grazie alle dichiarazioni dei testimoni. Il documento viene allegato agli atti processuali ma non è mai stato reso noto
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Ha dichiarato Marina Pipitone, vedova Reina, che al momento dell'uccisione del marito gli è accanto: "Riconosco Fioravanti come killer al novanta per cento". E ha aggiunto: "L'assassino aveva il volto atteggiato ad un sorriso che sembrava quasi un sogghigno". Anche Irma Chiazzese, vedova del Presidente della Regione e pure lei vicina al marito morente, ha riconosciuto Giusva Fioravanti come l'assassino. La signora ha raccontato anche "dell'incedere 'ballonzolante' del sicario", la camminata caratteristica di Giusva Fioravanti. Due testimonianze inequivocabili. Non sono bastate.
Da dove ricomincerà l'indagine? Francesco Crescimanno, che è anche legale di parte civile nel processo per la strage di Capaci e di Giovanni Falcone - oltre che avvocato di fiducia - era un amico, dice: "Il mio intendimento è quello di sganciarmi gradualmente dall'attività quotidiana e dedicarmi a tempo pieno all'inchiesta Mattarella. Voglio ricostruirla passo dopo passo. Sommando le attenzioni, c'è sempre la possibilità di arrivare a qualcosa di concreto".
I trenta faldoni sono custoditi nelle librerie del suo studio, a qualche centinaia di metri da piazza Politeama. Dentro c'è tutto il romanzo nero di Palermo, la "guerra" degli anni '80 scatenata contro lo Stato dal terrorismo mafioso. Omicidi "preventivi-conservativi" e omicidi "dimostrativi", i primi necessari per eliminare un pericolo imminente e mantenere gli equilibri esistenti, i secondi per produrre paura. Il delitto Mattarella rientra nella prima tipologia. Con l'avvocato Crescimanno che si spinge un po' più avanti: "La mafia c'entra, certo che c'entra. Ma quello di Mattarella, lo ritengo un omicidio più politico che mafioso".
Attilio Bolzoni
La Repubblica