Scrive Antonino Contiliano nel testo “Le radici del passato” (pag. 36) “Farfalle vorrei tossiche i poeti”, enunciando una poetica fedelmente perseguita, fin dai suoi esordi nella letteratura in un clima di protesta sessantottina, che non soltanto fallì i suoi obiettivi, ma che mise in atto un riflusso reazionario, da cui sono stati generati altri mostri, non ultimo “il piatto della solitudine collettiva” in seguito al dominio del “world facebook”, in cui è del tutto annegata ogni capacità individuale di reattività critica, di indipendenza deragliante, di visionarietà trasformatrice.
Contiliano usa ancora la poesia come un’arma che un’inusuale e composita tessitura linguistica rende tagliente e, appunto, tossica. Lanuzza, nella sua recente, pluricentrica opera “Il bosco, il mondo, il caos”, così scrive (pag. 41): “Contro il conformismo vestito d’obiettività, la poesia produce linguaggi ‘altri’ e diversi da quelli egemoni mai definitivi o legiferati; e interagenti con la prassi d’una critica generale e permanente, non addomesticabile dal pervasivo codice del dominio e delle sue predeterminate garanzie di senso”.
Contiliano, nell’aderire ad un’identica vocazione espressiva, prende a prestito sintagmi e dal linguaggio economico-politico, e dal linguaggio scientifico, come da quello del web, mescolandoli con furia tanto corrosiva da conferire ad ogni verso una forza perentoria in cui sdegno personale e denuncia del reale si intrecciano e sovrappongono.
L’effetto è amplificato da una ricerca di sonorità martellante in cui il valore delle rime, delle allitterazioni, dei giochi semantici non ubbidisce affatto ad una volontà esornativa, quanto alla violenza del risentimento morale, all’inquisitiva e febbrile analisi di un sistema corroso, allo sgomento per le sorti dell’umanità.
Eppure dei barbagli brevissimi di luce sembrano aprirsi in questo irto e scuro groviglio di versi attraverso sparsi frammenti di una cultura novecentesca, che sembrano riportare alla superficie una pietas sbalordita, un pressante quanto faticoso desiderio di recupero del volto autentico dell’umanità dall’incubo del reale: l’amore, la bellezza, il sogno, la politica come arte del governare, i doni del tempo e della memoria culturale.
Il lettore si trova improvvisamente di fronte a versi come questi (da: “Tra le rughe”, pag. 22): “ditemi se questo non è un uomo/ che nell’infosfera naviga sfilato/ aspettando ancora foglie d’autunno/ per coprirsi il sonno e al mattino/ trovarle gocce di sole nei fiori”, nei quali il poeta pronuncia una quasi lirica necessità di autodifesa nel bel mezzo di uno straripante sentimento di disagio epocale.
La poesia di Contiliano, dunque, non si apparenta a quella tanta produzione poetica attuale, linguisticamente oscura ma spesso priva di un qualsivoglia messaggio, che intende soltanto ribaltare il sistema della lingua in forza di una disubbidienza estetica che non riesce a farsi anche etica; ma, piuttosto, rimanda a quel forte sentire morale, a quelle eutopie (i luoghi o tòpoi del bene, anche in senso geografico) che infiammarono la sua giovinezza.
Probabilmente – mi prendo la libertà di aggiungere una riflessione personale- è proprio l’esperienza di un altro tempo, di un altro clima storico, di un’altra temperie morale il discrimen della differenza fra la generazione dei giovani intellettuali e quella dei loro padri e nonni, ché i primi sono figli del “vuoto” in cui vivono spesso come sperduti, come eroi senza radici, che non sanno nemmeno cosa e perché sognare.
Né voglio dire che tutti i giovani siano così: molti, per fortuna, ce ne sono di attenti, integri e coraggiosi, animati da grandi progetti: è a loro - così mi piace immaginare - che questa poesia è indirizzata; affinché essi, nell’ereditarla, sappiano spingerla a larghe e generose bracciate al di là del tempo della “repubblica delle fami e delle infami(e), della “videocrazia” e del “supermercato globale”, facendosi protagonisti di una rivoluzione planetaria, di un Futuro eretico in cui ciascuno possa tornare ad essere “homo homini deus”.
“Futuro eretico” è un grido che ricorda che si tratta di una cosa urgente, non più procrastinabile, che bisogna al più presto sottrarsi ad “una risacca secca di barbarie”.
Franca Alaimo