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03/01/2017 09:45:00

Buon anno “comunismo del capitale". Dalla “Comune di Parigi” un requiem

 di Antonino Contiliano - E’ una domanda che bussa alla mente (individuale e collettiva) con sempre maggiore insistenza! Come mai, nonostante le condizioni storiche attuali ne giustifichino le ragioni, il risveglio e il rilancio dell’utopia comunista concreta – quella del capovolgimento totale del mondo capitalistico – non abbia ancora molto spazio e coinvolgimento nel dibattito contro il “comunismo del capitale”, il neoliberismo della libertà dei mercati finanziari e della presunta eguaglianza degli individualismi concorrenziali.

E’ la domanda del comunismo di classe e popolare (i popoli degli sfruttati, impoveriti, esclusi, emarginati…, o degli eterogenei al sistema capitalistico esistenti ad ogni latitudine del pianeta terra) che –ferme rimanendo le cause del conflitti e le differenze dei livelli – emerge dalle continue e infinite crisi economico-sociali in campo del sistema-mondo liberistico. Il sistema-mondo che, protetto dallo Stato e da un’organizzazione funzionale agli interessi delle gerarchie oligarchiche e alle asimmetrie tra centri e periferie globali, coltiva l’eguaglianza degli individualismi proprietari e liberi in competizione imprenditoriale sulle geometrie dei flussi weltmarkt (il mercato mondiale finalizzato alla ri-accumulazione e alla riproduzione dei dominanti rapporti capitalistici antidemocratici e antisociali).
Una delle geometrie, per esempio, è quella del capitalismo auto-imprenditoriale colonizzante che massimizza gli sfruttamenti e mira solo ai profitti immediati, mentre variamente dislocato il potere del governo politico ne garantisce diritti e ne spiana terreni d’espansione e colture. Un via libera all’accentuarsi illimitato delle diseguaglianze, delle violenze, dei muri delle guerre militari e non militari e delle guerre tra poveri; una strategia che sfrutta ogni forma di colonizzazione e propaganda stereotipata interna ed esterna mediante la permeabilità dei confini ex-sovrani degli spazi dei flussi finanziari omologanti e degli spazi dei luoghi eterogenei. Lo spazio-tempo delle società e comunità differenziate che si muove non necessariamente come allineato alle logiche della modernizzazione dei burattinai dei mercati ordo-neo-capitalistici.
Per leggere il “comunismo del capitale” qual è, un modello e un’ideologia della beffa e una più che tragica e vergognosa sottomissione della vita intera delle persone (nonn solo occidentali), di cui la classe politica di potere e dirigente è autore e regista – grazie anche al sistema delle “porte girevoli” (sistema che, praticato da ds e sn, ricicla gli esperti e i leaders fidati dei vari settori d’impresa come ministri fidati) –, basterebbe leggere alcuni fenomeni legati alla globalizzazione del “comunismo del capitale” stesso.
A non voler rimandare alle teorie politiche e ai presupposti di riferimento antropologici, teleologici, psico-sociologici, socio-economici materialisti e conflittuali, etc., certi interrogativi non lasciano pace al sonno della ragione pur nel suo massimo grado di astrazione. Sono cioè le domande che certe parole d’ordine, governate dalla classe egemone al potere, non lasciano requie alcuna almeno a quanti non hanno voglia di morire aspettando solo un’evoluzione delle cose indipendente dalle prassi antagoniste e alternative; e ciò fino alla scelta e alla prassi di modalità politiche ibride o capaci di fondere e riorganizzare varie forme di democrazia diretta di cui diverse società passate hanno lasciato testimonianza.
Ma torniamo alla denuncia dei fenomeni paradossali quanto intollerabili del “comunismo del capitale”.
Come mai, così, per esempio, credere o dimostrare che un ordinamento giuridico e politico può essere “neutrale” (imparziale, specie se baipassa persino gli stessi principi costituzionali di eguaglianza maturati dalle rivoluzioni moderne), se c’è una ‘maggioranza politica’ che dispone dell’ordinamento giuridico-economico-finanziario e dei codici (etici, morali, civili, militari, penali) di ingresso e di uscita; che rimane in sella e, aspettando “fiducia”, maneggia le leve del potere e del governo amministrando secondo le meteorologie degli interessi delle borse del giorno, indicizzate dalle agenzie del rating; che le leggi e le regole, che strutturano le relazioni sociali, possano essere “impersonali” quanto “virtù” generali a favore del bene comune e del futuro dei giovani quando, invece, sono i pochi che usufruiscono delle ricchezze prodotte.
Come credere o dimostrare che nel contesto di un certo regime storico in crisi sia possibile e credibile accogliere e giudicare il dissenso, i conflitti e le istanze sociali (reali e legittimi) dei deprivati e sfruttati sotto l’etichetta deviante di “populismo” (inteso negativamente), quando la stragrande maggioranza delle popolazioni (locali e mondiali) soffre l’oppressione e all’emarginazione di classe, nonché, simultaneamente, esposta all’impoverimento degradante continuo, alla fame e alle guerre scatenate dal potere dominante. Sì che il populismo dovrebbe essere letto e interpretato come il malessere politico insopportabile della maggioranza degli eterogenei ed esclusi cui, invece, è stata tolta la sovranità e la libertà di decidere nelle stesse assemblee rappresentative istituzionali.
Il populismo? Un nome consumato all’insegna dello scongiuro del rilancio della lotta degli sfruttati come mondo degli eterogenei plurali – la «presenza dei “popoli senza storia”, che restano fuori della storicità» – e di tutto il mondo per ribaltare il sistema-mondo dell’omogeneo capitalistico! Eterogenei – scrive Ernesto Laclau (La ragione populista) e non solo differenti come rispetto ad un’identità la cui interiorità è obbligata per definire la differenza della stessa identità antagonista che si pone come il suo rovescio.
Come credere o dimostrare che in simile contesto storico-politico la governance dei poteri forti – banche, multinazionali (di ogni risma), agenzie di controllo e valutazione di mercati e blocchi di maggioranza politica complici – possano ritenersi e proporsi come difensori della stessa democrazia liberale delle alternanze e della partecipazione, quando la loro stessa governamentalità ordo-neo-liberista o neoliberista ne costituisce invece il certificato di morte.
Senza tanti richiami teorici, basterebbe solo constatare come il pianeta, dentro e fuori l’Europa, brucia (e non solo metaforicamente) sotto i colpi delle violenze concentrate e operative agli ordini militari e finanziari dell’intesa (di tipo concorrenziale) Stati-Governi-Imprese capitalistiche (in Europa – Unione europea – ben rappresentata dalla cosiddetta “Troika”, Fmi, Ce, Bce). Un’alleanza tesa a legittimare la pratica degli sfruttamenti intensi e sofisticati; e ciò a gloria dei poveri e delle diseguaglianze, senza pensare che le tanti stragi per fame e violenze coloniali, come i tanti morti di mare e terra, che scappano dalle loro terre in fiamme, rappresentano già di per sé un severo e inoppugnabile giudizio di condanna e di verità contro.
Come non voler riprendere l’idea di un comunismo come negazione totale del capitalismo, quando le spese militari per guerre di egemonia e colonialismo modernizzato aumentano di anno in anno, mentre le spese sociali vengono sempre più assottigliate ed elemosinate e la qualità della vita dei più acquista sempre più il valore del degrado, della miseria, dell’illibertà, dell’esproprio o del grottesco delle guerre umanitarie securitarie; o che il potere delle banche, assicurato e curato favorendone fusioni monopolistiche o provvedimenti di salvataggio ad hoc, sia pubblicizzato come garanzia del bene comune popolare, mentre chi, per esempio, è affetto da gravi malattie, denutrizione, analfabetismo o vive in ambienti non salubri (per diverse ragioni) viene invece abbandonato a se stesso e, fra l’altro, ritenuto responsabile della propria sorte, o giudicato incapace di badare a se stesso in regime di libera iniziativa e competitività creativa individualistica imperante!
Secondo le stime più recenti, su una popolazione mondiale di sette miliardi, la cifra dei morti per fame, guerre e stenti nel prossimo decennio/ventennio è prossima a circa tre miliardi di persone, mentre ogni minuto (dati “Sipri”) si spendono nel mondo a scopo militare 3,4 milioni di dollari, 204 milioni ogni ora, 4,9 miliardi al giorno. L’Italia – quell’Italia che per Costituzione repubblicana ripudia la guerra – invece spenderebbe ottanta (80) milioni al giorno. E secondo la graduatoria dell’istituto internazionale indipendente Sipri (Stockholm International Peace Research Institute o Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma), l’Italia si classifica al dodicesimo (12°) posto fra le nazioni che spendono somme ingenti per armamenti. Somme che aumentano di anno in anno e, beffa delle beffe, lo Stato italiano destina 30 milioni di euro per mantenere «i preti-soldato a servizio delle Forze armate italiane». Il primato delle spese militari appartiene però agli americani:

dopo gli Stati uniti vengono la Cina, con una spesa stimata in 216 miliardi di dollari (circa un terzo di quella Usa), e la Russia con 85 miliardi (circa un settimo di quella Usa). Seguono l’Arabia Saudita, la Francia, la Gran Bretagna, l’India, la Germania, il Giappone, la Corea del sud, il Brasile, l’Italia, l’Australia, gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia. La spesa complessiva di questi 15 paesi ammonta, nella stima del Sipri, all’80% di quella mondiale. La statistica evidenzia il tentativo di Russia e Cina di accorciare le distanze con gli Usa: nel 2013-14 le loro spese militari sono aumentate rispettivamente dell’8,1% e del 9,7%. Aumentate ancora di più quelle di altri paesi, tra cui: Polonia (13% in un anno), Paraguay (13%), Arabia Saudita (17%), Afghanistan (20%), Ucraina (23%), Repubblica del Congo (88%).

Se a queste somme poi si aggiunge la potenza di comando delle fusioni bancarie, quella dei flussi finanziari e dei provvedimenti salva-banche ad hoc, che operano esclusivamente in funzione dell’ordine capital-neoliberista e dei suoi signori, le cose allora, giustamente, urgono a cambiare punto di vista e rotta di navigazione. Le lotte d’opposizione vanno mirate verso la proposizione e l’adozione del superamento non soltanto del modello finanziario ma dello stesso capitalismo in toto, in sé. Il potere finanziario capitalistico odierno, non differentemente da quello di ieri, ha danneggiato e abbassato ulteriormente le condizioni di vita complessive degli uomini e dell’ambiente; se si pensa che fino a qualche anno addietro (secondo le cifre rese pubbliche … ma l’ammontare andrebbe aggiornato) si è investito 200 volte in più per salvare le banche in crisi di quanto, invece, si sarebbe speso per realizzare gli obiettivi umanitari che il nuovo Millennio prometteva. 
Ma la cosa dura. Per non andare lontano si ricordano in ordine di tempo gli ultimi due provvedimenti salva-banche del governo di Matteo Renzi, il cosiddetto “bail in” bail out” – (il “bail in” è un sistema che prevede di salvare una banca utilizzando i soldi degli investitori invece che quelli dello stato, pratica soprannominata “bail out”) – e quello diretto di venti (20) miliardi di euro del governo di Paolo Gentiloni in occasione della ricapitalizzazione del “Monte dei Paschi di Siena”.
I conti così sono lì a mostrare che non c’è nessun tipo di “scarsità” da contabilizzare come remora alla crescita di un livello di vita che metta in atto il principio “da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni” (il progetto dell’utopia comunista concreta). Il denaro non manca. Occorre esproprialo a chi l’accumula espropriandolo e conservarlo (protetto anche legalmente) nei paradisi fiscali, spenderlo per lussi, o per corrompere, o per favorire e sostenere golpe militari e non militari (complici dittature), o per pubblicizzare i prodotti delle varie industrie, compresi i profitti dei titoli tossici e quelli speculativi dei “futures”.
A quanto ammonta la pubblicità capitalistica? Sarebbe opportuno sommare il totale con quello delle guerre e degli stessi flussi finanziari (tutti votati a creare diseguagliane e povertà planetarie!)
Andrea Fumagalli (“Alfabeta2”, Dicembre/2011) scrive che il flusso finanziario globale per oltre “il 65%” del volume è controllato da pochi operatori finanziari, mentre risparmiatori e piccoli operatori subiscono passivamente le oscillazioni dei mercati finanziari e le agenzie del rating fanno un gioco sporco. Un tale controllo elitario dei mercati consente così che «poche società (in particolare dieci) siano in grado di indirizzare e condizionare le dinamiche di mercato. Un potere enorme e nessuno controllo democratico. Le società del rating (spesso colluse con le stesse società finanziarie), inoltre ratificano, in modo strumentale, le decisioni oligarchiche che di volta in volta vengono prese».
Lo stesso Pil mondiale (74 miliardi di dollari) del sistema mondo sarebbe inferiore a quello delle borse e delle banche entrate in fusione. Sommando quello delle borse sarebbe di 50 miliardi, quello delle obbligazioni finanziarie di 95 miliardi e quello degli altri strumenti quali i derivati era di 466 miliardi, la disponibilità sarebbe di 611 miliardi di dollari.
Un altro potere enorme e antidemocratico è quello delle fusioni bancarie e dell’enorme ricchezza concentrata nelle mani di pochi gruppi e altrettanti pochi individui.
Tra il 1980 e il 2005 (secondo i dati pubblicati dal Fmi) si sono registrate 11.550 fusioni bancarie e ridotto il numero delle banche a 7.500; 5 (cinque) società d’affari (J. P. Morgan, Bank of America, City-bank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e 5 (cinque) banche (Deutesche Bank, Ubs, Credit Suisse, City-corp- Merrill Linch, Bnep-Parisbas) detengono (al 2011) il controllo di oltre il 90% dei titoli derivati; le prime 10 (dieci) società d’affari quotate in borsa, pari allo 0,12% delle 7800 società registrate, detengono il 41% del valore totale, il 47% dei ricavi e il 55% delle plusvalenze registrate.
A tutta questa enorme ricchezza, se si aggiunge – come scrive Tonino Perna (“Alfabeta2”/, Aprile/2011) – l’extraprofitto dei “mercati illegali” del capitale criminale (collaterale e connesso con il modello capitalistico), calcolato “tra il 3 e l’8% del Pil mondiale” (cioè 74 trilioni di dollari), è il caso di ribadire allora che le condizioni materiali oggettive per spingere verso una rivoluzione socio-politica anti-neoliberismo non mancano proprio. Le asimmetrie crescono e si di varicano sempre di più.
La crescita geometrica delle disuguaglianze è esponenziale, se si pensa che c’è un esiguo strato di super ricchi e una massa di proletari, di povertà crescenti e disoccupazioni crescenti: «63 individui più ricchi del mondo detengono beni pari a quelli posseduti da metà della popolazione planetaria; […] gli Stati Uniti […] sono il paese più disuguale del mondo sviluppato; hanno tassi di mobilità sociale inferiori a quelli della maggioranza dei paesi occidentali; hanno un elevato indice di povertà (e mortalità) infantile; sono pieni di homeless; a causa del fulmineo aumento della disuguaglianza il rapporto fra lo stipendio del lavoratore medio e quello dei cento Ceo, delegati cui si lasciano i poteri propri (corsivo nostro), più pagati è passato - dal 1970 a oggi - da 1/45 a 1/829. Fino agli anni Novanta questo fenomeno veniva spiegato in base alla teoria Sbtc (skill-based technological change), secondo la quale i quadri superiori guadagnano sempre di più perché la rivoluzione informatica ha spostato la domanda di lavoro verso i soggetti a elevata competenza che le università non riescono a sfornare al ritmo richiesto, mentre i salari dei lavoratori esecutivi calano a causa dell'emigrazione dei loro posti di lavoro verso i paesi in via di sviluppo».
Come negare poi che il mercato del lavoro e le attività dell’industria informatico-digitalizzata, che si attrezza per la circolazione tramite il commercio online dei servizi internet, sono votati più alla disoccupazione che all’occupazione. L’occupazione stessa e la tutela dei diritti sono parallelamente assottigliate, anzi ritenute un ostacolo per le riprese e la crescita! I prodotti smart – «quelli che incorporano tecnologie che consentono loro di comunicare sia con i consumatori che fra di loro attraverso la “interne delle cose”» – si prevede che per il 2020 saranno 21 miliardi.
In Come salvare il capitalismo (2015, edizione italiana), Robert B. Reich rileva che in America nel 2014 i «servizi produttivi di routine», ossia i lavori ripetitivi o standard come quelli che si svolgono in una catena di montaggio o di ufficio, sono scesi al 20%, mentre la loro «retribuzione al netto dell’inflazione è inferiore del 15 per cento rispetto a vent’anni fa. […] nel 2014 l’autovettura senza conducente di Google ha posto una serie minaccia all’attività di circa 4,5 milioni di tassisti, camionisti, autisti di autobus e netturbini ». Dall’altro lato gli ipermercati dell’e-commercio, come Walmart o Amazon, che sono a bassa mano d’opera d’impiego, realizzano profitti stratosferici prima impensabili. Così, se l’esempio Walmart (il datore di lavoro privato più grande nel mondo) con 1,8 milioni di dipendenti in 15 paesi» e il suo porto prodotto/addetti fosse seguito da altre aziende, «basterebbero 300 milioni di lavoratori per produrre l’intero pil planetario, lasciando a spasso oltre 2 miliardi di disoccupati». Non meno esemplare è il caso di Amazon che con i suoi 60 mila impiegati genera «un fatturato da 70 miliardi di dollari, laddove un’impresa tradizionale avrebbe bisogno di 600 mila dipendenti». Nel 2012 Instagram (il sito di condivisione foto), acquistato da Facebook per circa un miliardo di dollari, «aveva tredici dipendenti e trenta milioni di utenti […] mentre (corsivo nostro) KodaK – che qualche mese prima aveva presentato istanza di fallimento – al suo apice dava lavoro a centoquarantacinquemila persone».
Per come non salvare i lavoratori, non ricordando i licenziamenti passati (esodati o autoesodati!) nei vari settori, si può invece guardare alle ultime vicende contrattuali dei 1.666 lavoratori di “Almaviva” (Roma, dicembre 2016) lasciati a spasso.
Per inciso, della necessità però del risveglio del passaggio al comunismo della democrazia (eguaglianza sociale) reale e sostanziale, aggiornando i processi culturali e materiali al contesto storico in itinere, già si parla da un po’. Si ricorda, soprattutto, e nel pieno della crisi finanziaria più virulenta del 2008, l’iniziativa convegnistica di Alain Badiou e Slavoj Žižek all’Istituto Birkbeck (istituto universitario di ricerca e di insegnamento di livello mondiale) di Londra (2008) sul rilancio dell’idea di comunismo. Un dialogo-confronto che poi lo stesso Badiou riprende a tu per tu con il socialdemocratico Marcel Gauchet e pubblicato dal periodico “MicroMega” (n. 1/2016). Una conversazione, fra i due, che – mediata da martin duru e martin legros – prende il titolo di «Che fare? Dialogo sul comunismo, il capitalismo e il futuro della democrazia».
Per parte nostra (e modestamente), del tema abbiamo tentato con: “Comunismo Possibile. Utopia efficace”, ; “Passaggio al comunismo”; “Se il capitale finanziario mette sotto sequestro interi paesi”.