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07/03/2017 06:00:00

"Lacrime di sale": storia di un uomo e di un'isola da candidare al Nobel per la pace

  E’ passato ormai quasi un quarto di secolo da quando, a Marsala, s’inaugurò il primo ciclo dell’ “Incontro con l’Autore” e sono davvero pochi i grandi nomi della letteratura e del giornalismo italiani che non hanno fatto tappa nella nostra città: da Einaudi a Consolo, da Maraini a Camilleri, da Fofi a Biagi, da Colombo a Mieli, per citarne soltanto alcuni.

Ciò nonostante, l’ultimo della serie è stato il più intenso ed emozionante. Tutti quelli che hanno avuto la ventura di parteciparvi – ed io tra questi – ne sono usciti stravolti, cambiati. E, per me, che da amministratore, nel 1994, ho avuto il privilegio di dargli l’abbrivio, non c’è modo migliore per tornare allo spirito originario della manifestazione. Che non era certo quello di dar vita ad una serie di occasioni di confronto accademico o salottiero. Ma di ‘usare’ il testo che, di volta in volta, si presentava come pre-testo per accendere il dibattito su questioni di fondo (dalla Shoah alla Legalità, dall’Immigrazione alla Condizione Giovanile). Di offrire,ai cittadini lilibetani e, soprattutto, agli studenti, un’opportunità di crescita civile e umana. E, ciò che più conta, di modifica delle idee e dei comportamenti concreti in ordine ai temi trattati.

Il volume cui faccio riferimento è “Lacrime di sale”, opera scritta a quattro mani da Lidia Tilotta – giornalista Rai – e Pietro Bartolo, medico e dirigente, dal 1991, del Poliambulatorio di Lampedusa. Se, alla prima, va il merito di aver saputo narrare con raro senso della misura una materia così incandescente (350.000 esseri umani in fuga da guerre e miseria, sbarcati nell’isola in un ventennio) evitando le trappole della retorica, è a Bartolo che si deve l’esempio mirabile di un uomo che ha cercato di arginare, con tutta l’energia di cui poteva disporre, quella che Papa Francesco ha definito “La più grande tragedia umanitaria, dopo la Seconda Guerra Mondiale”. Un uomo cui è toccato d’ispezionare un numero infinito di cadaveri,per tentare di dargli un’identità. Di curare migliaia di bambini, donne e uomini feriti nel corpo e nell’anima. Dai colpi inferti, non solo dalla rocambolesca traversata dell’inferno del Sahara ma, soprattutto, dalle angherie di spietati carcerieri libici che, di questa umanità dolente, hanno fatto strazza ri peri.

Un uomo che fa pensare a Shlomo Venezia: ebreo sefardita di Salonicco, costretto, insieme agli altri membri del ‘SonderKommando’, nel campo di sterminio di Auschwitz, a trasbordare migliaia di morti dalle camere a gas ai forni crematori. Un “Hombre vertical”. Un “Signore meraviglioso”, come l’ha definito Flamin, giovane rifugiato del Mali. Ma, per me, anche uomo cu ‘nn’avutu mai ‘guanti gialli’: marinaio nella sua isola. Fabbro e ortolano a Trapani, al tempo del ginnasio. Allevatore a Siracusa, ove frequenta il liceo. Studente universitario modello che, mentre insieme a Rita, la sua compagna, fatica senza sosta per diventare ginecologo, pensa sempre ai sacrifici che il padre fa per mantenerlo (unico dei sette figli) agli studi.

Così si spiega l’empatia stabilitasi immediatamente tra me e Pietro: anch’io studiavo pensando ai sacrifici dei miei, alternando studio e lavoro. Anch’io sono stato il primo laureato, in un albero genealogico popolato da intere generazioni di semianalfabeti. Ecco perché le parole, scritte da Lidia e pronunciate da Pietro hanno avuto straordinaria risonanza. Per me e per tutti coloro che li hanno lette e ascoltate. Per il pubblico adulto, nel pomeriggio, al Teatro “Sollima” e per gli allievi delle scuole cittadine, l’indomani mattina all’Isiss “ Damiani”. Che hanno ascoltato, rapiti, le letture di Lidia e il racconto di Pietro. Che hanno guardato, attoniti, le immagini terribili custodite da Pietro nella sua pen drive. Le stesse che hanno convinto Gianfranco Rosi a realizzare “Fuocoammare”,il docufilm che ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino e ricevuto la nomination agli Oscar, nella sezione Documentari.

E, poco male se, come Bartolo ha sottolineato, “da Los Angeles non siamo tornati a Lampedusa con la mitica statuetta: in compenso, siamo riusciti a portare Lampedusa in America”. A catalizzare l’attenzione dell’intero pianeta, sul fenomeno delle “Migrazioni”. A far conoscere al mondo le storie di Sarah e Omar, Anuar e Favour, Mustafà e Jerusalem. Di Faduma (afflitta da emiparesi e madre di sette figli, giunta in Europa per lavorare e sfamarli). Di Hassan e Mohamed (due fratelli somali che hanno sfidato il deserto e affrontato la traversata, l’uno, paralitico, sulle spalle dell’altro). Di Kebrat (strappata alla morte, persa di vista per anni e, d’incanto, reincontrata all’aeroporto di Milano, dopo l’intervista con Fazio a “Che tempo che fa”).

Libro e film: un unico message in the bottle arrivato a destinazione. Ora, però, è tempo che i “Grandi della Terra”, l’Unione Europea in primis, prendano coscienza di una tragedia per troppo tempo rimasta ‘invisibile’.
E’ tempo di accogliere queste anime in pena, direttamente sulle sponde della Libia.
E’ tempo di garantire ai settemila minori non accompagnati, una vita..‘normale’.
E’ tempo di scandagliare a fondo nelle troppe opacità dei grandi Centri d’Accoglienza.
E’ tempo che le Istituzioni – dallo Stato agli Enti locali – intensifichino i controlli sulle innumerevoli Comunità per Minori non Accompagnati.
E’ tempo, infine, di candidare Lampedusa, ormai sinonimo di ‘Solidarietà Umana’, la sua gente straordinaria e Pietro Bartolo, Medico dei ‘Dannati della Terra’, al Nobel per la Pace.

G. Nino Rosolia