Per fortuna i ragazzi di Marsala stanno lontani dalla "Blue Whale", il gioco social che porta al suicidio. Lo conoscono, eccome, sono curiosi, sanno la sua storia, le regole e anche i ragazzi che si sono suicidati a seguito del gioco. Ma ne stanno lontani: "Un gioco stupido, noi amiamo la vita" dicono gli studenti marsalesi, molti dei quali hanno parlato del fenomeno "Blue Whale" a scuola.
Nato in Russia come un gioco, o forse era un’operazione furbetta di automarketing, o addirittura pubblicità occulta di una casa di lingerie, poco importa. A questo punto, dopo che il fenomeno è esploso anche in Italia, il “Blu Whale”, la Balenottera Blu, si è trasformato in un pericolo. In certi casi è diventata addirittura una psicosi di genitori e insegnanti. Ma la polizia postale avverte: «Non è più uno scherzo, perché questa brutta specie di gioco sta incrociando le fragilità di tanti, troppi teenager».
Sono circa due mesi che s’indaga su “Blue Whale”. In diverse procure sono stati aperti fascicoli. Forse non ci sono ancora indagati, perché non è facile capire esattamente chi è la vittima e chi il carnefice. Ma intercettazioni telematiche sono in atto per venire a capo del rebus. E allora ecco perchè Carlo Solimene, direttore della divisione investigativa della Polizia postale che da tempo lavora per la sicurezza del web, dice: «Non è un gioco, ma un comportamento pericolosissimo e contagioso». E se anche non c’è nessuna prova che si sia arrivati fino all’esito estremo di qualche suicidio indotto, c’è abbastanza materia per allarmarsi.
Prima avvertenza, di app come “Blue Whale” ce ne sono più di una. Hanno in comune un percorso di follia, di prove estreme, e di ricerca di protagonismo, che attira soprattutto i giovanissimi, nativi digitali. Sta diventando, insomma, una stupida moda.
Seconda avvertenza, il gioco crea dei ruoli interscambiabili tra i “tutor” e i “giocatori”. Come in tutti i giochi di ruolo, però, c’è chi si appassiona oltremodo, scambiando la realtà con il virtuale, e alla fine non importa più perchè ci si comporta in un dato modo: il grave è che i comportamenti sono terribilmente concreti.
Da quando s’è preso a parlare di “Blue Whale”, però, la polizia postale si trova a dover fronteggiare un esercito di investigatori fai-da-te, di pseudogiornalisti, di genitori angosciati che creano più confusione che altro. E dato che il lavoro degli investigatori è di scandagliare i siti sospetti per capire le dinamiche in atto, è evidente che tutta questa folla di falsi bersagli non fa altro che far disperdere le energie. Per non parlare della miriade di segnalazioni che poi si rivelano sbagliate.
Entrare nella app è facilissimo. «Un meccanismo perverso», lo spiega la polizia postale, che sembra fatto apposta per attirare personalità fragili.
Problema nel problema, questo tipo di applicazioni attirano non solo le potenziali vittime, ma anche i potenziali carnefici. «Dietro le vesti di tutor può esserci qualsiasi malintenzionato, di cui la Rete è piena».
Ecco dunque perché tanto allarme. La frittata ormai è fatta. Il mito è stato creato. La polizia postale ha perfino deciso di non usare più l’espressione “Blue Whale”, perché ritenuta troppo gentile e tentatore. Nelle indagini e nelle comunicazioni chiameranno il fenomeno con la sigla F57, «la lettera e il numero che si chiede di incidere sul dorso della mano come prima prova nel percorso verso questo girone infernale».