di Leonardo Agate - Filippo Lopez y Royo (Monteroni di Lecce, 26 maggio 1728 – Napoli, 1º maggio 1811) fu vescovo di Nola, arcivescovo di Palermo e Monreale e viceré di Sicilia.
Visse a cavallo di due secoli, che segnarono la fine del vecchio regime e l’istaurazione del nuovo, che è quello che ancora viviamo. Il trapasso dall’antico al nuovo, avvenuto con la Rivoluzione francese del 1789, lasciò tutti interdetti, alcuni piacevolmente altri sconvolti, quando non ci persero la vita. I rivolgimenti accaduti, prima a Parigi, poi in Francia e dappertutto in Europa, furono epocali. Ancora ne sentiamo i benefici e i malefici.
Don Filippo stava dalla parte dei potenti, ma le potenze resistettero e caddero a casaccio, specialmente nel Regno delle due Sicilie, che fu conteso da Francesi e Inglesi, con occupazioni e ritirate, abbandoni e risorgimenti, del Re e della Corte napoletana.
Don Filippo, di aristocratica famiglia leccese, imparentata con l’arcivescovo di Napoli, ebbe la via ecclesiastica quasi segnata dal destino. Per nascita, o si faceva cavaliere, o prelato, o cicisbeo. Avendo l’inclinazione agli studi, entrò nel seminario, dove si costruì solide basi culturali e religiose, tanto che fu nominato vescovo di Nola, e in seguito arcivescovo di Palermo e Monreale.
Per un caso della sorte, che sempre ci mette lo zampino fuor degli intendimenti personali, avvenne che il viceré di Sicilia, il principe di Caramanico, andato a curarsi a Napoli per suoi malanni, vi restò secco, non si sa se per mano di Dio e per quella degli avversari. Ferdinando IV di Borbone doveva scegliere un reggente provvisorio, in attesa che la Corte di Madrid indicasse il nuovo viceré. Il re pensò al suo arcivescovo di Monreale, che sempre si era comportato da uomo di fede, cattolica e realista.
Don Filippo riunì, quindi, nella sua persona le due cariche, religiosa e politica. E qua cominciarono i suoi travagli, correndo gli anni successivi al fatidico 1789.
Il suo predecessore a Palermo era stato benvoluto da tutti, perché lasciava correre sia il giacobinismo, che era la scanzonata indipendenza isolana, sia l’eresia gaudente di nobili e benestanti. Il clero arrancava, tra ignoranza e interessi personali, legati alle rendite ecclesiastiche. L’arcivescovo tentò di mettere ordine nel lassismo religioso, e, divenuto viceré, anche nel lassismo politico. Di questo gliene deve essere dato atto, anche se gli storici di parte siciliana, mal sopportando un napoletano al comando, non ne diedero un giudizio positivo. Lo ritennero in parte bigotto, e in parte incapace di dirigere una società così complessa come quella della Sicilia, dove i segreti non avevano mura e le dicerie si confondevano con la verità, in un guazzabuglio di aspirazioni autonomistiche, rigurgiti di conservatorismo, miseria della gran parte della popolazione, ricchezze spropositate di redditieri.
Se don Filippo avesse avuto incarichi religiosi e politici a Napoli in quei frangenti non si sarebbe trovato meglio. L’istaurazione della Repubblica napoletana, con la fuga del Re e della Corte in Sicilia, il suo ritorno alla capitale continentale con la restaurazione, forse lo avrebbero messo nei guai più di quanto non si sia trovato a Palermo.
Qualche guaio lo ebbe lo stesso, anzi di notevoli, se si pensa che, durante la Repubblica, fu accusato di sevizie verso un certo Pescetti, giacobino avventuriero. Il Nostro si difese mostrando che aveva aderito alla Repubblica con una donazione di 15.000 onze di rendita annua all’Erario. Fu creduto dai nuovi governanti e assolto in un processo informale. Durata poco la Repubblica, avvenne la restaurazione, ed ecco piombargli addosso l’accusa di collaborazionismo con i repubblicani. Stavolta don Filippo si difese con scritti in cui mostrò che la sua donazione era frutto di un calcolo preciso: salvare la sua persona da mali maggiori, preservandola per la restaurazione. Fu sostenuto nelle sue difese dalla Curia romana, dove aveva amici ed estimatori.
Avendo superato indenne sia la prima controversia personale - processuale, sia la seconda, avendo un certo numero di anni sulla groppa, quasi 80, chiese l’esonero dall’arcidiocesi di Palermo e Monreale. Quando, dopo mesi di insistenze, fu accolta, tornò a Napoli, dedicandosi alle relazioni amicali e agli stuti. A Napoli morì, che aveva 83 anni, notevolissima età per quei tempi.