È stata la prima DOC d’Italia. Quando infatti è stata istituita, per i vini del Belpaese, la classificazione delle Denominazioni di Origine Controllata (e poi Garantita), attraverso il D.P.R. 930/1963, la prima di queste ad essere nominata tale, in senso temporale, altra non è stato che il Marsala: simbolo di tempi enoici felicemente trascorsi fin dalla metà del Settecento, anche in campo internazionale, e ancor oggi rappresentativa di quella che rimane la provincia del Tricolore italico quantitativamente più produttiva in senso assoluto, quella di Trapani.
Sono trascorsi cinquantacinque anni da allora, mentre nel frattempo il Marsala diventava tutto e il contrario di tutto: fino al punto, qualche decennio fa, di esser forse più ricordato in cucina, come condimento per le scaloppine, oppure per delle imbarazzanti versioni all’uovo o allo zabaione. Ma la rivoluzione era dietro l’angolo; l’anno zero del Marsala moderno, con annessi e connessi (e contrasti, litigi e denunce), bussava alle porte, sovvertendo noia e pigrizia, quantità industriali e versioni grossolane. Il folle capace di sparigliare il tavolo si chiama Marco De Bartoli: coraggioso, legato alle sue origini ma sperimentatore incallito, testardo, irruente, talvolta offensivo.
Una volta ereditata dalla nonna la tenuta di famiglia, in contrada Samperi, si metterà di buzzo buono per condurre l’azienda con la stessa passione con cui si diletta con le auto d’epoca: senza compromessi. Rinuncerà a produrre il Marsala come avevano iniziato a farlo gli inglesi, con l’aggiunta di alcol a fortificare, e tornerà all’antico metodo locale: quello che avrebbe necessitato di frutti atti a raggiungere almeno quindici gradi alcolici (da lì l’uva grillo energicamente contenuta nelle rese per ettaro) e legato al ripristino del metodo perpetuo o “solera”, che voleva il nettare di Bacco sistematicamente rabboccato con l’aggiunta, di anno in anno, dell’annata nuova a quelle più mature.
Dagli anni Ottanta nascerà quindi, da tutto ciò, un vino esplosivo, incantevole, che ovviamente non avrebbe potuto chiamarsi Marsala: sarebbe stato allora denominato Vecchio Samperi, prodotto anche in alcune versioni meravigliose marcate in etichetta dal trascorrere del tempo (Vecchio Samperi 10 anni, 20 anni, 30 anni…). Marco si sarebbe poi dedicato anche al Marsala vero e proprio. Fino a quelle ambrosie portentose che avrebbe realizzato in seguito all’acquisizione di alcuni possedimenti sull’Isola di Pantelleria: come il Bukkuram, passito delizioso, o le versioni secche di Zibibbo, come il Pietra Nera. Ma quante ne avrebbe dovuto subire prima della sua dipartita, avvenuta nel 2011 a soli 66 anni: compresa la scandalosa, faziosa e strumentale denuncia per sofisticazione che nel 1996 aveva visto la sua cantina posta sotto sequestro per molto tempo, fino all’assoluzione piena (cantina che fortunatamente, però, conteneva vini che non avrebbero potuto che giovarsi di quell’attesa, pur se forzata ed estenuante).
Un grande, Marco, di cui oggi i figli Sebastiano e Giuseppina proseguono le gesta. Andate a trovarli ma intanto provate a riassaggiare, data la sua collocazione in commercio decisa soltanto pochissimi anni fa, il suo Marsala Vergine Riserva 1988: color dell’ambra e dal naso incredibilmente marcato da mallo di noce, agrumi canditi, tabacco da pipa, cacao, castagna, miele, spezie, sale, iodio, fiori e frutta secca. Difficile descriverlo al palato, pressoché infinito: avvolgente, sapido, caldo, dalla piena rispondenza gusto-olfattiva e soprattutto setoso, elegante e di persistenza eterna. Proprio un vino di Marco, senza se e senza ma.
Fabio Turchetti
Repubblica.it