«Dal 1993 sfugge agli organi dello Stato e rappresenta per Trapani una primula rossa, da imitare, ammirare, verso la quale provare una certa connivenza».
Bastano queste parole di Teresa Principato, procuratore aggiunto di Palermo, nel corso di una audizione in Commissione antimafia, a spiegare perché Matteo Messina Denaro rappresenti qualcosa di più di uno dei latitanti più ricercati dalle polizie di tutto il mondo e soprattutto da quella italiana. «È inaccettabile che ad oggi uno come Messina Denaro sia ancora latitante», ha ripetuto giorni fa il capo della Procura nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho. «Non deve essere più consentito che il ricercato numero uno in Italia continui a trovare accoglienza in quei territori. Questo è un capitolo che deve essere definitivamente chiuso con il suo arresto».
È un punto d’onore, per la magistratura siciliana e italiana. Si tratta di mostrare ai conniventi, ai complici, ai colletti bianchi in affari col latitante che lo Stato, presto o tardi, è in grado di vincere sull’omertà. Lo Stato: ecco cos’è in palio, ha spiegato la stessa Principato: «Messina Denaro gode a Trapani di una protezione che spesso sconfina nella connivenza e addirittura nella condivisione di certi valori rispetto a uno Stato in cui nessuno crede». Gli hanno arrestato via via «quasi tutti i familiari di sangue, sorella, cugini, cognati, tutti coloro che gli erano vicini». Gli hanno sequestrato tutto quello che gli potevano sequestrare, una montagna di soldi se «solo la catena della Despar è stata oggetto di confisca per 850 milioni». Hanno seguito per anni tutte le tracce che avrebbero potuto portare a lui. Niente.
La trasmissione televisiva Chi l’ha visto? – ricorda nel libro L’Invisibile il giornalista e scrittore Giacomo Di Girolamo (storico conduttore di una coraggiosa e irridente trasmissione radio intitolata Matteo, dove sei?) – arrivò nel 2006 a scoprire addirittura che il boss, per correggere il suo strabismo, era andato in Spagna, da dove pare vada e venga spesso, «per una visita di controllo in uno dei centri più importanti al mondo, l’Institut Barraquer d’Oftalmologia di Barcellona». Dove si registrò «come Matteo Messina e dichiarando la vera data e il vero luogo di nascita». Tranquillo. Impunito.
Ma perché non riescono a prenderlo? Perché «è un pesce che nuota nella sua acqua», ha spiegato mille volte Di Girolamo. Che nel libro Contro l’antimafia scrive direttamente a Messina Denaro e ai mafiosi, che secondo certi studi non sono poi tantissimi, uno ogni 900 abitanti: «Una specie di setta. I testimoni di Geova sono molti di più. E allora qualcosa non quadra: perché un gruppo così ristretto non può produrre tutto questo “racconto”. E, soprattutto, perché non lo si debella definitivamente? Perché si rigenera sempre, come gramigna? Perché (…) la vera forza della mafia sta fuori dalla mafia. Voi siete così duri a morire per tutto quel che riuscite a coinvolgere: non per quello che siete, ma per quello che muovete, dai professionisti agli imprenditori, dai burocrati ai politici, tutti pronti a sfruttare i vostri metodi violenti e a spartirsi con voi i proventi delle varie attività illegali, impieghi, mercati, grandi opere. Avete in mano la golden share della società italiana, che genera sempre nuovi dividendi». E che fa la politica? Risponde il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho: «È distratta. E pensa ad altro…»
25 ottobre 2018, Il Corriere della Sera (qui l'articolo originale)