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02/11/2018 06:00:00

I siciliani, la rimozione e quel «’Ntra iddi s’immazzunu».

 Continuano oggi le pagine dello scrittore Domenico Cacopardo sull'incoscienza storica della rimozione, quella che l'autore definisce una psicopatologia siciliana. È possibile leggere qui la prima parte (…).

 

Dopo una lunga guerra condotta contro di lui, non solo dai criminali, ma anche da ambienti giudiziari palermitani, Giovanni Falcone è costretto, per continuare il suo lavoro di magistrato specializzato nella lotta alla mafia, a trasferirsi a Roma assumendo l’incarico di direttore generale degli affari penali del ministero della giustizia. Qui elabora un disegno di legge nel quale è prevista l’istituzione di una procura nazionale antimafia, dotata di poteri diretti, cioè titolare delle indagini e delle loro conclusioni. Intendeva così, l’eroico magistrato, rendere generale il metodo induttivo, quello che aveva permesso a lui e a Paolo Borsellino di imbastire, nel 1986, il più grande processo della storia precedente -e successiva sino ai nostri giorni- conducendolo al successo: 460 imputati, 346 condanne (19 ergastoli). Un metodo, il metodo Falcone, fondato sul lavoro sul campo e a tavolino, giorni e giorni di riflessione sui dati, sui riscontri, per ricostruire eventi e responsabilità.

Un vero e proprio pericolo per la criminalità organizzata che avrebbe visto interrompersi la sua infiltrazione al Nord -poi realizzata nel silenzio e nell’indifferenza-.

I nemici della superprocura, incredibilmente, emersero nel sistema giudiziario (per timore di perdere autonomia; tralasciamo il resto), nel Csm e in Parlamento, anche a sinistra, nonostante la sinistra socialista e comunista avesse pagato un doloroso tributo di sangue ai mafiosi.

Giovanni Falcone rappresentava, quindi, per la criminalità siciliana e per tutte le altre criminalità nazionali, un pericolo vero e reale: un uomo efficiente, attento ai fatti, capace di collegarli e di rendere palesi in modo razionale i procedimenti e le gerarchia criminali, di cui i delitti rappresentavano la causa e l’effetto.

Quel disegno di legge venne depotenziato (coordinamento non responsabilità dirette).

Nonostante ciò, il crimine non poteva rischiare. E lo immolò, insieme alla moglie Francesca Morvillo, e agli agenti Rocco Dicillo, Antonio Moninaro e Vito Schifani.

Morto Falcone, l’unico candidato autorevole all’Antimafia era Paolo Borsellino. Non altri. E anche lui venne sacrificato.

Non c’è assoluzione collettiva per questi delitti. Il sangue delle vittime ricade sulla testa dei siciliani e bagna la terra dell’isola infelice.

Certo, si sta guardando a collegamenti e a complicità irrisolte. Si tenta ancora di trovare il bandolo di un rapporto tra mafia e politica che stabilisca per sempre e in modo inequivocabile una responsabilità nazionale.

Tutte attività meritorie, giacché puntano ad allargare il campo della colpa. Una colpa così tremenda da essere inaccettabile per le singole coscienze.

Ciò, tuttavia, non può assolverci.

La mentalità e la pratica mafiosa esistono ancora e prosperano non solo da noi. Sono dentro le nostre case, nei nostri paesi, nelle nostre piazze, nei nostri caffè. Le nostre granite portano in sé il seme della criminalità.

Nel 2011, i miei libri sono stati bruciati davanti agli uffici comunali di Letojanni in presenza del vicesindaco e di un vigile urbano: avevo scritto due articoli in cui raccontavo scempi, speculazioni e presenze illecite. Cosimo Brancato, personaggio noto alle cronache locali per la sua vicinanza alla mafia, propose su Facebook di gettarmi a mare con una pietra al collo.

Riferisco questi fatti solo per dimostrare come il sostrato criminale è così diffuso da coprire anche una provincia babba (ma ormai non più) come il messinese.

Nella realtà, ci sono tre tipi di siciliani.

Quelli sinceramente antimafia. Sono una minoranza combattiva e capace di mettersi in evidenza. Tra di essi, come logico, diversi infiltrati.

Quelli mafiosi, una cospicua legione, continuamente falcidiata dagli arresti.

E gli indifferenti. Coloro che credono di non essere mafiosi perché stanno a guardare facendosi i fatti propri.

In realtà essi sono complici e terreno di coltura criminale.

Il giorno dell’assassinio di Paolo Borsellino (19 luglio 1992, h. 16.58) ero in aeroporto a Catania. Gli aerei erano in ritardo.

Ben presto si sparse la notizia.

Una distinta signora, seduta vicino a me, mi chiese: «Chi succidiu?»

«Hanno assassinato Paolo Borsellino e la sua scorta», risposi.

Commentò: «’Ntra iddi s’immazzunu».

Una distinta signora che si faceva i fatti suoi. Propriamente.

 

Domenico Cacopardo (https://www.cacopardo.it/)