Sono trascorsi cinquantuno anni dal terremoto del 15 gennaio del 1968 che colpì i paesini della Valle del Belìce, ha gettato lo sconforto nella popolazione e ha rassegnato le coscienze.
Ci sono piazze enormi e vuote, teatri senza spettacoli e spettatori, case mai costruite e opere di urbanizzazione non completate.
E’ il paradosso di una Italia che cammina a due velocità: il terremoto in Friuli nel 1976 è storia dell’Italia recente, eppure la ricostruzione lì avvenne in breve tempo. Nessuna new town, tanto che si è parlato di modello Friuli, gli abitanti del posto possono rivedere dalle loro case lo stessa panorama di prima.
In Sicilia la storia raccontata è un’altra, fatta di lentezze burocratiche, di paesini fantasma che si è pensato di ricostruire senza tenere conto dei cittadini, delle loro abitudini, del loro lavoro.
A Santa Margherita Belice, nell’agrigentino, mancano le opere di urbanizzazione, molte famiglie vivono in condizioni precarie, senza fognature e acqua pubblica, ottantaquattro famiglie sono in attesa dei fondi per la ricostruzione della loro prima casa.
A fare da cornice a questo quadro desolante la mancata previsione nell’ultima legge di Bilancio nazionale dei fondi per la ricostruzione.
Dopo cinquantuno anni restano tanti ricordi e tanti ritardi, incapacità, omissioni e colpe.
I sindaci parlano di assenza dello Stato, i cittadini vivono in città che non sentono proprie.
E’ il caso di Gibellina, ospiti nella propria terra, senza una identità forte, guardarsi attorno e chiedersi dove si sta andando, come si è arrivati a quel tipo di ricostruzione.
Chi è sopravvissuto al terremoto ha avuto stravolta la vita e le abitudini, i ragazzi sono cresciuti in mezzo a una piazza enorme con dei porticati che incorniciano il nulla, estranei dentro un contenitore costruito senza tenere conto dei luoghi circostanti, delle tradizioni.
Gibellina Nuova è una città che è stata eretta su modello inglese, strade enormi, piazze lontane dalle case, capolavori di arte contemporanea, ma si tratta di una città senza centro, dieci volte più grande della vecchia Gibellina con lo stesso numero di abitanti.
Gibellina come una ridente città nordeuropea costruita in terra sicula, esperimento non riuscito. L’idea era di fare diventare la nuova Gibellina un centro turistico e culturale: nulla di tutto questo.
Il Cretto di Burri, la colata di cemento sulle rovine, ha cementificato i ricordi, seppellito le lacrime e lacerato il dolore di chi ha vissuto in quegli anni: cancellata la memoria.
Tutte le città della Valle del Belice sono state progettate per grandi comunità ma sono abitate da poche anime, a Poggioreale, ad esempio, c’è un anfiteatro molto grande e un cavalcavia che non collega nulla.
La città è abitata da appena 1400 persone, per lo più anziani, i giovani sono andati via.
Se la ricostruzione non è stata terminata per la rinascita di queste zone siamo ancora all’anno zero.
La città di Poggioreale vecchia è fatta di rovine, luogo prediletto da fotografi, una eredità pesante, spettrale, fuorviante, che mette a nudo i limiti umani.
Nacquero per la ricostruzione opere di una certa importanza, ma anche inutili, e invece non venne costruita la linea ferroviaria Salaparuta-Castelvetrano.
L’enorme piazza deserta richiama il fenomeno dell’emigrazione.
Le città della Valle del Belìce cercano un senso comune di rinascita e di affermazione, certi di poter vantare importanti opere d’arti di richiamo internazionale, certi anche, purtroppo, di dover creare un rapporto costruttivo con quello che è nuovo, con quello che resta e di ricucire il paradigma tra vecchie e nuove generazioni.
Le città sono state pensate e progettate moderne e di qualità, le macerie però non possono rimanere cattedrali nel deserto.