di Marco Marino
Continua il nostro speciale sul teatro di Emma Dante, cominciato ieri con la prima parte di un sillabario delle parole su cui ruota il suo universo scenico. Un mondo fatto di gesti, famiglie, strade.
Stasera, alle 21, si inaugura la stagione 2019/2020 del Teatro Biondo di Palermo proprio con il nuovo spettacolo di Emma Dante, dal titolo “Esodo”. Opera che riprende il mito di Edipo, che più volte è stato indagato dalla drammaturga palermitana nei suoi precedenti lavori, come nel film “Via Castellana Bandiera”.
L’autrice ci ha consegnato alcune riflessioni sul suo nuovo spettacolo e il commento alle ultime due parole del nostro sillabario: scuola e comunità.
Una parentesi sullo spettacolo ESODO
Nelle loro opere, i Greci hanno codificato dei principi legati al senso dell’onore che avrebbero dovuto costituire i cardini della nostra cultura. Prendiamo il mito di Edipo, che uccide il padre Laio perché nessuno dei due vuole dare la precedenza all’altro in un crocicchio. Ecco, cedere il passo a un’altra persona era un atto di grande nobiltà. Era un gesto che faceva la differenza in un essere umano. Succede spesso anche a noi, quando ci ritroviamo in una stradina stretta con la macchina, di metterci da parte e fare attraversare il passante che abbiamo davanti. E quell’uomo, mosso da riconoscenza, ci fa un cenno di saluto. Una sorta di grazie con la mano. Devo confessare che ogni volta che mi succede questa cosa, il mio cuore si riempie di gioia. Perché è un contatto minimo che con quella persona non ci sarebbe mai stato, se io non gli avessi ceduto il passo.
Prendiamo l’Odissea. L’Odissea Ulisse la racconta ai Feaci che lo accolgono dopo che lui era sbarcato sulla loro isola moribondo e senza più navi. I Feaci lo ospitano, ascoltano la sua storia, gli danno da mangiare, lo lavano, lo purificano e gli donano delle imbarcazioni per poter proseguire il suo viaggio. Di questi tempi è allucinante raccontare una favola del genere, ma soprattutto è allucinante che un comportamento simile venga avvertito come qualcosa di incredibile.
Questi messaggi di riconoscenza e ospitalità che i Greci ci hanno trasmesso, che il teatro ha l’obbligo di riconsegnare al suo pubblico, sono al centro del mio nuovo spettacolo “Esodo”.
SCUOLA
A scuola, che è la Scuola delle arti e dei mestieri dello spettacolo del Teatro Biondo, faccio esattamente quello che negli anni ho fatto con la mia compagnia. Uso lo stesso metodo che ho usato con i miei attori quando indago le tematiche che mi interessano. Quest’anno la mia classe si apre alla teatralizzazione con il pubblico. Per me il teatro è fondamentale nel momento in cui c’è il pubblico. Senza il pubblico non c’è il teatro. E quest’anno è dedicato al rapporto e al dialogo che io voglio, desidero che questi ragazzi aprano con gli spettatori.
È una scuola, dicevo, che vede la forte presenza della mia metodologia. E infatti parte dall’idea che questi allievi-attori debbano rispondere a un percorso creativo simile a quello che ho praticato io stessa. Perciò ho fatto in modo che loro imparassero a scrivere i testi, a cucirsi un bottone del costume; che imparassero a cantare, a ballare, a recitare, a puntare un riflettore. Ma soprattutto ad avere un rigore scenico e una completa abnegazione nei confronti del loro lavoro. Questo è l’insegnamento che ho dato loro. Non so se ho insegnato a fare teatro, probabilmente no, ma la cosa che più mi interessava, in una scuola come la intendo io, era ed è equipaggiare la persona che decide di fare questo mestiere con un grandissimo senso di responsabilità e di autorialità. L’attore non è un “pupiddu” nelle mani del regista, è una persona pensante che conosce esattamente il messaggio che sta lanciando mentre recita, e lo condivide. Perché se non lo condivide, se non ama lo spettacolo che sta facendo, non lo deve fare.
COMUNITÀ
È molto complesso il rapporto con la comunità degli spettatori. I progetti che porto in scena non sono “pop”, nel senso che non sono di facile fruizione. Sono spettacoli esplorativi, indagatori. Adesso l’unico, vero problema sembra fare delle cose facili per acchiappare un pubblico distratto, che ha bisogno di essere acciuffato quando chatta o posta foto sui social. Ma il problema non è acchiappare il pubblico. Il senso profondo del teatro è dialogare con il pubblico. Che è molto diverso. Le sale non sono più buie, sono piene di lucciole, di plancton marini che nel fondo del mare si vedono sberluccicare. Gli spettatori di oggi hanno lo sguardo continuamente genuflesso, non sanno guardare dritto. Non sono più abituati. È difficilissimo trovare qualcuno che sia disposto a vivere un’esperienza artistica da solo. È questo il vero problema. Non c’è più la solitudine! O meglio, ce n’è tantissima di solitudine, ma se ne ha talmente paura che non si è più disposti a fare da soli esperienza di un grande evento come uno spettacolo a teatro.
Dobbiamo fare i conti con tutto ciò. Ma noi artisti dobbiamo fregarcene che lo spettatore sia distratto e portare fino in fondo la nostra ricerca. È l’unico modo per superare il problema del telefonino, il problema della distrazione, altrimenti ad averne danno sarà soltanto il nostro progetto artistico. Non mi preoccupo dei telefoni, quindi, mi preoccupo di dare al pubblico, di consegnare al pubblico con grandissima onestà gli interrogativi che il mio percorso creativo continua a porre. E queste domande sono domande che riguardano noi tutti come esseri umani, come comunità.