di Domenico Cacopardo
L’estate del 1993 era stata una bell’estate. La trascorrevo in Sicilia, nella casa di famiglia, costruita nel 1752, dalle grandi mura, fresca nella stagione calda e calda d’inverno. Una casa tutta anditi e grandi camere, nella quale potevi scomparire o ricomparire di fronte a familiari e ospiti all’improvviso, gettando nel panico gli ignari. Dentro c’era il mio personale rifugio: lo studio del bisnonno Saverio, giudice borbonico, costretto a nascondersi in una sperduta masseria nei Peloritani con l’arrivo di Garibaldi. Aveva diretto diversi processi nei confronti dei rivoluzionari, infliggendo pene severe.
Tuttavia, debbo dire che questa stanza di isolamento e riflessione, per un amante della storia e del diritto, sarebbe stato un luogo di perdizione e di delizie, vista la quantità di opere sette-ottocentesche ch’era riposta nei ripiani di due grandi librerie e difesa dagli agenti atmosferici, dalla polvere e dagli insetti da vetrate giallastre che non erano fattori secondari nel fascino di quell’ambiente. C’era anche un Codice Napoleone rilegato in carta-pecora i cui precetti erano ancora sensati e, forse, utilizzabili. Completavano l’arredamento una piccola scrivania, pesanti sedie in rovere di Slavonia con mostre in legno di ciliegio e una di quelle poltrone a dondolo nelle quali usavano rilassarsi un tempo le persone di una qualche rilevanza. Una porta finestra si apriva sul balconcino che non dava sul mare ma su un minuscolo giardino, con un bel limone che profumava l’aria e, talora, l’anima. E poi, una specie di cripta, il sancta sanctorum del bisnonno, era occupata da un’altra scrivania, un imponente secretaire, difeso, nella parte alta, da una serranda di legno -ben serrata- che impediva a chi non ne possedesse le chiavi di frugare tra i numerosi cassetti. Qui erano custodite lettere d’affari, come i resoconti dei fattori e documenti vari, tra i quali mi avevano colpito le lettere scambiate tra il giudice e suo suocero, barone Francesco Cappellani Aldaresi, di Palazzolo Acreide. E le lettere d’amore scritte dal mio avo alla bisnonna per chiederle di assentire al matrimonio: l’aveva conosciuta a un pranzo dato in suo onore -giudice regio a Palazzolo- e nonostante la differenza di età -lui 42, lei 16-, se ne era perdutamente innamorato. Un luogo mitico, quella città, ricostruita dopo il terremoto del 1693 (che colpì anche Noto, Modica e tutta la Sicilia Sud-orientale), intorno a cui -ero bambino-, si favoleggiava nelle serate invernali, né radio né televisione, quando tenevano banco le vecchie sorelle di mio nonno che ricordavano balli e matrimoni nel palazzo Cappellani, con la presenza di nobiltà siciliana e, cosa estremamente eccitante, ufficiali dell’esercito italiano: tra di essi il colonnello in pensione Ottorino Iondo, ferito gravemente nella battaglia di Adua. La memoria del Borbone, tuttavia, sussisteva: parlando della capitale, le zie intendevano Napoli e non Roma e auspicavano, per me, un completamento degli studi proprio nella città partenopea. Uno sviluppo che il caso volle donarmi, giacché, alla fine, finii giurisprudenza e mi laureai proprio nella Federico II, dove poi proseguii con storia e filosofia salvo non terminare: labor familiaque premebant.
Nell’estate 1993 avevamo avuto ospiti figli e generi e, con l’aiuto di una lancia, avevamo potuto goderci il mare unico di quello che un tempo si chiamava Seno pelagio, l’ampia e scogliosa baia a Est di Taormina, nota ai romani per la qualità del suo pesce: tanto che murene, gronchi e triglie, appena catturate e ancora vive, venivano disposti nelle grandi olle piene d’acqua di mare e condotte alle pescaie imperiali di Capri, Anzio e Ponza, per la gioia degli imperatori Tiberio, Nerone e Claudio. Si dice che, per il massimo piacere dei palati imperiali, gronchi e murene fossero alimentati con la carne degli schiavi.
Le giornate s’era svolte metodicamente. Andavo a pescare al mattino presto, poi imbarcavo i familiari per andare a fare il bagno negli angoli migliori della zona: tra gli scogli del Capo di Sant’Alessio e tra quelli dei Capi Sant’Andrea e Taormina. La piacevolezza della stagione derivava dalle temperature in permanenza miti (nelle ore calde 30°-32°), dal vento di Tramontana o di Maestrale e dall’assenza del micidiale Scirocco.
Tutto terminò il 13 agosto, quando il tempo ruppe e iniziò a piovere. Gli ospiti ripartirono tra il 16 e il 17 e ci ritrovammo soli, nella grande casa, mentre gli elementi imperversavano.
Il 18, dopo pranzo, mia moglie andò a riposare, mentre io mi ritirai nello studio, mettendomi a trafficare al computer.
La pioggia era diventata meno violenta e veniva giù in modo costante, in quel modo che i siciliani efficacemente chiamano ‘nzuppa viddanu (inzuppa -anche nel senso di arricchisce- il contadino). D’improvviso, verso le due e mezzo, mi venne in testa un’idea: -Perché non vado a scoprire Palazzolo Acreide, che ancora non conosco?- Guardai la mappa stradale, scoprii che si trattava di 147 km e decisi da farlo, puntando al centro della città, in cima all’acrocoro su cui era stata ricostruita.
Lasciai un biglietto ben in vista per mia moglie (-Vado a Palazzolo, torno prima di cena-) e mi avviai. La distanza era abbordabile e parzialmente servita dall’autostrada, ma tra pioggia e attraversamenti, arrivai nella piazza principale dopo le cinque. Oltre due ore di viaggio. Diluviava. Il luogo era dominato dalla Chiesa madre, dedicata a San Sebastiano. Una costruzione barocca di grande qualità architettonica, realizzata nel Settecento, nella quale erano custodite importanti opere pittoriche, ben segnalate dalla guida rossa del Touring. Volevo proprio visitarla, avendone letto molto anche per il rito più importante, la processione di San Sebastiano: durante il percorso vengono mostrati al simulacro del santo gli infanti ignudi nati nell’ultimo anno, benedetti poi dall’arciprete.
Un carro funebre era parcheggiato ai piedi della scalinata e, vicine, molte auto. Benché fosse in corso un funerale, decisi di entrare.
Il tempio era gremito, tanto che, per osservare le opere di pittura che lo adornavano, mi feci strada con cautela. A un certo punto, divenne impossibile andare avanti.
Qui, ebbi la seconda ispirazione di giornata. Mi rivolsi a un fedele e gli domandai: «’Cu morsi?» (chi è morto?).
«’A signura Cappellani.»
Raggelai. Quella gita estemporanea rispondeva a una chiamata, alla volontà di qualcuno dei miei antenati (e, tra essi, forse la stessa bisnonna ch’è seppellita nel cimitero del mio paesino).
Sconvolto, partecipai al rito e, alla fine, mi presentai a un familiare della defunta, presentai le condoglianze e, rapidamente, sparii dalla chiesa e dalla città.
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