Il 10 dicembre del 1969 in Viale Lazio , nell’ufficio del costruttore Filippo Moncada, in quella stanzetta in fondo al cortile contrassegnato col civico 108 la mafia dell’edilizia colpì con una ferocia terrificante.
Tre minuti di fuoco e quattro morti lasciati a terra, “in pochi secondi sono stati sparati più di duecento colpi” scrisse il cronista de “L’Ora”.
Il primo a morire fu Michele Cavataio, poi toccò a Salvatore Bevilacqua cadere sotto i colpi dei mitra degli attentatori. E poi venne il turno di Ciccio Tumminello.
Giovanni Doné- un custode del cantiere- venne abbattuto con una raffica in pieno petto. Grazie al suo intervento - Donè capitò nel luogo della strage per caso( era andato a ritirare lo stipendio) quel giorno - Filippo Moncada e suo fratello minore Angelo riuscirono a salvarsi.
Alle 19 e 4 minuti le due “Giulie” targate Messina, che pochi minuti prima si avvicinarono nel luogo della strage provenienti dalla circonvallazione, si allontanarono verso Via Libertà.
L’ingresso dell’ufficio dell’impresa edile era un cancello di ferro. Dietro il cancello si trovava uno stretto corridoio lungo un paio di metri.
L’ufficio era in fondo.
Una delle due macchine, verso le sette di sera quando Viale Lazio era pieno di gente, entrò nel corridoio, mentre l’altra si fermò davanti al cancello.
Dalla prima macchina scesero quattro Killer vestiti da poliziotti , dalla seconda altri due( uno indossava la divisa di capitano).
La messa in scena, abilmente orchestrata, servì a disorientare chi si trovava dentro l’ufficio.
Il commando di Killer riuscì ad entrare e fu la strage. Dentro l’ufficio, accanto ai tre cadaveri, gli inquirenti trovarono due mitra, una pistola e la Cobra che Cavataio aveva tirato fuori nel vano tentativo di difendersi.
Fuori dall’ufficio vennero trovati un mitra e la doppietta che in un primo momento sembrava essere di proprietà del custode del cantiere Giovanni Doné. I testimoni si trovarono davanti uno spiazzo seminato di bossoli e proiettili inesplosi. L’ufficio dove avvenne la strage andò completamente distrutto.
Ma quei morti di cinquant’anni fa non furono gli unici a lasciare la vita in Viale Lazio.
Nel luglio del ’61 morì Filippo Riolo, Agostino Caviglia morì qualche mese più tardi tra Viale Lazio e via Cruillas.
Viale Lazio fu un teatro di guerra con protagonisti gli uomini di cosche tra loro avversarie e che vennero prosciolti a Bari per insufficienza di prove.
In Viale Lazio morirono i fratelli Gucciardi, Emanuele Leonforte, ma il principale bersaglio di quella sera era il superboss Michele Cavataio.
Cavataio cominciò il suo apprendistato criminale fra Acquasanta, Cantiere Navale, zona del mercato ortofrutticolo.
Di una Mensa dei Cantieri aveva la gestione, cominciò a chiedere il ‘pizzo’ ai mercati , reclutò la manodopera per le ditte che lavoravano al Bacino.
Superati i banchi di prova Cavataio divenne ben presto “Don Michele”. Ampliò la sua attività con l’acquisto di aree edificabili intestate ad Angela Lombardo (la donna con cui conviveva). Entrò in società con Stefano Urso, con Sirchia e Gambino. Successivamente fece parte del clan di don Pietro Torretta.
Quando veniva denunciato il Cavataio, da vero boss, finiva sempre prosciolto per insufficienza di prove. Uccise Bernardo Diana, Emanuele Leonforte, venne coinvolto nella strage di Villabate del 29 giugno del ’63 in cui persero la vita Pietro Cannizzo e Giuseppe Tesauro e nella strage di Ciaculli del 30 giugno del 1963.
Dopo che Cavataio venne condannato soltanto a tre anni per associazione a delinquere al processo di Bari, decise di trasferirsi a Roma. Nonostante il trasferimento nella Capitale non dimenticò mai Palermo dove tornò spessissimo per sposare Angela Lombardo e dove finì la sua vita di boss nell’ambiente che aveva creato la sua fortuna: gli uffici di un cantiere edile.
Il ricordo della strage è ancora vivo nelle parole di Ferdinando Donè, figlio del dipendente della ditta Moncada morto perché capitato in Viale Lazio al momento sbagliato: “Ricordo quella sera, mentre giocavamo sentimmo gli spari. Percorrendo un vialetto incontrammo un uomo che fuggiva con una pistola. Dopo più di 40 anni venimmo a conoscenza di chi fosse quell’uomo grazie al collaboratore di giustizia Gaetano Grado che raccontò di come l’obiettivo di quella strage fosse Michele Cavataio la cui aspirazione era quella di diventare il capo della mafia in Sicilia e per questo diventò antipatico alle ‘famiglie’( Cavataio, come scritto, aveva commesso una serie di omicidi a Palermo)”.
Dopo la ricostruzione della strage Ferdinando racconta della sofferenza provata nel vedere come suo padre fosse diventato all’improvviso un mafioso, un delinquente. “Subito dopo la strage fummo interrogati in questura e ricordo ancora le parole del capitano dei carabinieri Giuseppe Russo che disse a mia madre “Signora stia tranquilla perché noi sappiamo che suo marito non c’entra nulla””.
Dopo il collegio e il diploma all’istituto professionale Ferdinando è andato a vivere a Torino. “Mi trovavo in officina in fabbrica e due colleghi, che non conoscevano la mia storia perché mi vergognavo , cominciarono a parlare di mafia. Ad un certo punto uno dice all’altro: “Bernardo Provenzano e Riina per me sono degli eroi perché erano dei contadini e sono diventati i padroni dell’Italia”.
Dopo quel momento Ferdinando ha capito- anche dopo l’arresto di Grado- che doveva fare qualcosa e per questo è partita questa avventura che prevede un incontro con gli allievi delle scuole per ricordare quella strage avvenuta in un periodo buio per la Sicilia e l’Italia intera.