«La matrice mafiosa nell'ultima delle grandi stragi che chiude il quindicennio 1969-84 offre una pista che conduce in una zona grigia caratterizzata da rapporti incrociati tra mafia, servizi segreti, criminalità politica e comune, il cui ruolo appare ormai innegabile in molte delle vicende anche anteriori al 1984». Così il senatore Giovanni Pellegrino, nella relazione della commissione stragi del 1995, inquadrava il contesto in cui è maturata la strage del Rapido 904, passata alla storia come la «strage di Natale». L'ennesimo attentato del Dopoguerra sul quale si allungano ancora molte ombre e di cui in questi giorni ricorre il 35° anniversario.
È il 23 dicembre del 1984 e il treno Napoli-Milano è pieno di famiglie che si spostano per le festività. Alle 19.08 un ordigno con carica radiocomandata, piazzato nel vagone 9 di seconda classe, esplode, uccidendo 16 persone e ferendone 267. La bomba deflagra nella galleria ferroviaria di San Benedetto Val di Sambro (Bologna), che si trova vicino alla stazione di Vernio, in provincia di Prato. Luoghi non distanti da quelli dell'attentato al treno Italicus, il 4 agosto di dieci anni prima.
Lo squarcio nel convoglio provocato dall'esplosione è impressionante. Il vagone 9 è devastato. I soccorsi si dimostrano subito difficili, con il treno fermo dentro al tunnel e i collegamenti radio in tilt. Antonio Calabrò, che sarà presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime, ricorda: «Le macerie addosso, la bocca piena di sangue, il senso di oppressione al petto». Dopo la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, l'Italia ripiomba nella paura. «S'è voluto sporcare di sangue questo Natale», commentò Bettino Craxi, all'epoca presidente del Consiglio.
Nel 1992 divennero definitive le condanne per la strage del «cassiere» di Cosa Nostra Pippo Calò, dei suoi aiutanti Guido Cercola e Franco D'Agostino e del tecnico elettronico tedesco Friedrich Schaudinn. L'ex parlamentare dell'Msi, Massimo Abbatangelo, invece, viene condannato soltanto per la detenzione dell'esplosivo, insieme a quattro camorristi. Il movente viene individuato nella durissima risposta della mafia alle rivelazioni di Tommaso Buscetta e agli oltre trecento mandati di cattura emessi da Giovanni Falcone. Ma solo in anni recenti alcuni pentiti hanno indicato in Totò Riina, che nel 1984 aveva già in pugno Cosa Nostra, il mandante della strage.
Nel 2011 la procura di Napoli chiese il suo arresto, mentre il «capo dei capi» era detenuto nel carcere di Parma, dove poi morì il 17 novembre 2017. L'inchiesta passò poi alla procura di Firenze, che nel gennaio 2013 chiese il rinvio a giudizio per il boss: il processo che ne scaturì portò due anni dopo ad una assoluzione, con la formula del dubbio. Tra rinvii, un giudice sostituito perché prossimo alla pensione e le polemiche dei familiari delle vittime il processo d'appello viene fissato per il 21 dicembre 2017. Troppo tardi, Riina non c'è più, e anche la verità di questa strage rimane incompleta.