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04/01/2020 06:00:00

Due parole per due decenni. Gianfranco Perriera, Felicità / Gentilezza

Alla mezzanotte del 31 dicembre, non succede soltanto di strappare dalla parete l’ultima pagina del calendario del 2019. L’impercettibile, eppure decisivo, passaggio da un anno all'altro stavolta ci introduce in un nuovo - e per definizione, imprevedibile - decennio: una prospettiva interminabile, si potrebbe pensare, per una società che comincia ad adattarsi al ritmo delle effimere, i piccoli insetti acquatici che sopravvivono appena un giorno. O meno poeticamente alla durata di una storia su Instagram, che inesorabile scompare dopo ventiquattro ore.


Allora, per attraversare insieme questa invisibile linea di confine, in direzione del 2020, abbiamo chiesto ad alcuni scrittori siciliani, che periodicamente avete letto sulle nostre pagine, di raccontarci quali parole portano con loro in questo viaggio: quale parola sintetizza il sentimento dei dieci anni che ci lasciamo alle spalle, quale raccoglie le speranze che animano i prossimi dieci, venti, cento?


Con questo sillabario vorremmo cominciare a muoverci dentro la complessa stagione che si sta aprendo davanti a tutti noi. Sicuri che non esiste un tempo indecifrabile, oscuro o tenebroso: per poterlo leggere, però, è sempre necessario avere delle parole che ci facciano da lumi.

***

 di Gianfranco Perriera

Felicità: è uno stato di pienezza interiore, di appagamento, che rompe gli argini però, trabocca all’esterno: rende fecondi – come vuole l’etimologia – e genera frutti.

L’occidente ci ha costruito sopra la sua ragion d’essere. Con e per la felicità, la congenita instabilità degli umani si trasforma in inarrestabile potenza creativa. L’occidente l’ha resa, almeno in teoria, ecumenica: a tutti ha promesso soddisfazioni. La parola campeggia come diritto nella Costituzione americana. Non è cosa da poco. Va ben al di là del diritto all’uguaglianza, che potrebbe essere anche grigia e mortifera. E’ il diritto ad essere gratificati e festosi. Sempre vitali e creativi. Ognuno secondo i propri gusti, le proprie inclinazioni. Non si può certo essere felici alle condizioni dettate da altri. Sulla base della felicità alla portata di tutti, materializzata nella concretezza di un benessere diffuso, l’occidente ha messo al tappeto l’avversario d’oltrecortina che lastricava di morti e privazioni la strada del sol dell’avvenire. Ma proprio quando il nemico venne cancellato, le promesse del liberalismo occidentale svanirono come fumo. La felicità per tutti lascia il campo all’ansia e al rancore. Alla frustrazione e alla rabbia. Che si sia trattato di un volgare inganno? Kant, quel rigorista che temeva i voli dell’illusione, in effetti aveva avvisato: le morali, scriveva, non sono fatte per il piacere e spesso quel legno storto che è l’uomo erra, non perché troppo cattivo, ma perché si lascia travolgere dal desiderio di felicità. Così fa la scelta sbagliata, abusa del prossimo e della pazienza del mondo.

La felicità oggi, per tanti è una chimera. Per troppi ha indossato la maschera della più sconsolata invidia. Pubblicità docet: tutti, o quasi tutti, ormai sanno che l’ultimo modello, tanto osannato, in breve tempo sarà superato. Ma tanti lo desiderano perché invidiano il fascino, la potenza che emana dal possessore del suddetto modello. La felicità si è ridotta a status symbol, in una rincorsa che non vedrà mai il traguardo e che ridurrà la creatività al soldo dei luoghi comuni? Perché si sa, lo status symbol deve acchiappare i gusti di tutti. E’ semplificativo. Lo status symbol è qualcosa che piace al grande numero, ma che pochi possono permettersi. Bisogna avere il denaro. Che trasforma, se lo hai a palate, il mondo in una lussuriosa prostituta o in un fan sfegatato. E a chi non ce l’ha? Resta il rammarico o la furia.

E’ per la felicità come per la verità – scriveva Adorno – non la si ha, ma ci si è. La felicità è avvolgente e materna? Non so se questa condizione vagamente intrauterina sia l’immagine più pertinente per la felicità. Ma mi pare una felice intuizione che la felicità non la si ha. Non è un possesso. Non è una proprietà. La felicità è generosa: coinvolge ed è coinvolta. Con lucidità e con un briciolo di nostalgia. Altrimenti saremmo nell’estasi dionisiaca. E’ la gratitudine ciò che distingue la dignità della felicità, continuava Adorno. Non è rapace, la felicità. Guarda all’altro da sé, rispetta l’altro da sé, ringrazia l’altro a sé. Sa che nell’incontro è scattata la scintilla. Non è invidiosa e abita un mondo amabile. Per tutti.

Se la felicità fosse nell’essere appagato, scriveva Leopardi, la felicità non sarebbe, giacché l’uomo è incontentabile. Non si può essere felici da soli, si è detto tante volte. Non si può essere felici se gli altri sono infelici. La felicità è creativa, si è detto, ma insieme sa ascoltare l’altro. Per questo non è uno stato. Ma insieme una tensione e un ricordo. Non è un territorio di conquista. Essa scommette sul futuro non tacendosi la precarietà dell’umano. Forse bisognerebbe trattarla con quella stessa incantevole passione piena di spirito con cui Giulietta gioca col suo amato. E dirle, come lei: “Buonanotte, buonanotte! Separarsi è un sì dolce dolore, che dirò buonanotte finché non sarà mattino”.


Gentilezza: “Tanto gentile e tanto onesta pare/la donna mia quand’ella altrui saluta,/ch’ogne lingua deven tremando muta”, scriveva Dante. Non solo onestà e gentilezza sono congiunte, ma la presenza di un esser gentile fa intorno a sé spazio, produce una soglia d’ intangibilità e impone il silenzio. Un silenzio pregno d’attesa e disposto all’incanto, pieno di deferenza e però febbricitante. Muta diviene in effetti la lingua, ma trema, di emozione e di partecipazione, riconosce la separatezza dall’apparizione e si sente, insieme, soavemente investita dal desiderio di comprendere. Forse di emulare.

In tempi di glossolalia arrembante, come i nostri, in tempi di chiasso e prepotenza, di noncuranza e aggressività di solito generata da frustrazione, l’essere gentili è un modo di sottrarsi alla deriva. Gentile si pare, suggerisce Dante: con la gentilezza, dunque, si conciliano essere ed apparire. Entriamo nel campo quasi del sacro, quando si manifestano entità che sospendono il tempo quotidiano. L’esser gentile è, ad ogni modo, potenza in atto, che necessariamente si mostra, si protende in un’azione che testimonia della grazia interiore e si riverbera concretamente su chi le sta di fronte. Atto che non persegue un utile, che non fa del destinatario né uno strumento né una terra di conquista o di rapina. Ma lo lascia, invece, essere. Dischiude uno spazio, dispone un’area di distacco, per cui l’altro venga meglio in luce e sia trattato con cura. Le cose non sembrano le stesse – suggeriva già Aristotele nel II libro della Retorica - a chi vuol bene o a chi odia, a chi è adirato o chi è tranquillo, bensì differenti in tutto o nella gran parte. In sostanza nessun umano è esente da pre-giudizi o pre-dilezioni – nasciamo in una lingua, in una cultura e in una tradizione, in un’educazione e non siamo mai esenti da emozioni o sentimenti – la gentilezza, allora, rende i nostri pregiudizi disponibili alla sospensione, impedisce loro di essere vincolanti e prevaricanti, ci apre all’ascolto e alla migliore empatia.

In questi tempi dominati dalla velocità, dal chi si ferma e perduto e dall’ansia del consumo (o dalla vergogna di non poter consumare), la gentilezza dona all’esistere un po’ più di respiro, lascia tempo al pensare e all’immaginare e consente al cosiddetto spirito di non ritenersi superfluo o peggio ancora un’attardata costruzione refrattaria allo Spirito – ben più maiuscolo – del tempo, un intoppo, insomma, sulla strada delle prestazione di tecnologica esattezza.

La gentilezza, è vero, tradisce nel nome un sapore antico e un’origine clanica, che attestava, ad alcuni gruppi familiari allargati, il privilegio del sangue: l’esser di famiglia gentilizia li rendeva superiori, cioè, alla maggioranza dei mortali. Ma per quanto riguarda l’antico, beh in epoche di disinvolta ferocia e che dell’ultima novità - e sono schiere quelle che sgomitano, riottose in fila, alle porte dei grandi magazzini per accaparrarsela prima degli altri – fanno un idolo ben più che effimero, forse l’irriducibile anacronismo può risultare un felice contraltare e, chissà, un classico strumento di risveglio delle coscienze.

Quanto all’origine elitaria o altezzosa, di un traguardo – almeno a queste latitudini - possiamo con certezza congratularci con il progresso, di aver reso impossibile, cioè, sostenere che ci possano essere razze, sessi, o anche solo individui, inferiori. Se viviamo in un mondo globale, dove le merci si muovono all’impazzata, come non definire stolto chi volesse ripristinare una supremazia di nascita o di suolo?

La gentilezza, ovviamente, si può fingere - come ogni altra qualità o virtù del resto – ma, abbiamo visto, una gentilezza con secondi fini non sarebbe più tale. Il vanto che le si può concedere è quello di aver piacere dell’essere gentili: un vanto che ci rende più umani, perciò. Farebbe parte di quelle virtù deboli a cui Bobbio ascriveva in primis la mitezza e a cui ha dedicato il noto Elogio. In effetti la gentilezza si tira indietro, sembrerebbe facile approfittarne. Lasciare il posto ad un altro sul bus, sorreggere chi è più stanco, farsi scavalcare in coda da una donna incinta, non impedire a chi la pensa diversamente di esporre le sue idee, guardare, a una mostra, un quadro senza pretendere di essere coinvolti in qualche azione stimolante: sarà pur debole – più spesso si fa debole – ma alle altrui fragilità toglie impedimenti e timori. La gentilezza sa prendersi cura senza essere invadente. Sa mettersi nei panni dell’altro conservando una propria estraneità. Non dice io, io, io come in questi tempi di identità sparpagliata tanti fanno anche attraverso i media virtuali. Ma non teme di non contare nulla e cerca di favorire i desideri e i bisogni dell’altro.

Quando Van Gogh dipinse Il buon samaritano, riprendendo il quadro di Delacroix, non si limitò a rendere il paesaggio più convulso. Aggiunse sullo sfondo alcune figure, che indifferenti alla sofferenza dell’uomo che il samaritano sollevava sul cavallo, si allontanavano per la loro strada. La gentilezza, possiamo trarne insegnamento, nel disporci all’ascolto dell’altro, potrebbe essere quella virtù che, in fondo senza eccessi d’eroismo, dolcemente, ci ispira a non essere indifferenti ai mali del mondo.