La foto di Luigi Di Maio all’aeroporto di Madrid con fidanzata, sneakers e barba incolta, mentre il mondo s’infiamma a sua insaputa, sarà non soltanto il ritratto di un ministro al meglio delle sue possibilità, ma di un intero governo, per come fu messo in piedi e ci sta, purché ci stesse e ci resti. Potremmo dire: noi lo avevamo detto, qualche milione di noi, quanto ci apparisse imprudente e strampalato affidare il ministero degli Esteri a uno che soltanto un anno prima aveva chiamato Mr. Ping il presidente cinese (Xi Jinping), per non dire di Augusto Pinochet traslocato in Venezuela. Ma c’era da metterlo in piedi, questo governo - come viene, viene - e bisognava salvare le apparenze; il segretario del Partito democratico, Nicola Zingaretti, si impuntò nel negare a Di Maio la riconferma a vicepremier, per la discontinuità col governo precedente, come se bastasse scriversi in fronte discontinuità, come se la discontinuità non fosse sufficientemente indebolita dalla reiterazione del presidente del Consiglio, come se la discontinuità non attenesse piuttosto a politiche diverse, e a politiche migliori. Ma non c’è altra strategia che il lì per lì, non esiste domani, e Zingaretti e quelli del Pd non hanno nemmeno l’attenuante di essere venuti giù con la piena, attenuante da concedere a Di Maio, sebbene ci si continui a chiedere se il giovane leader, perlomeno talvolta, non colga l’umiliante sproporzione di sé alle prese con uomini e questioni infinitamente più grandi di lui.
Tenetevi forte e sentite questa. Lo scorso novembre Di Maio s’è incontrato a Villa Madama con Sergej Viktorovič Lavrov, ministro degli Esteri russo. Curriculum di Di Maio: vabbé, lo sapete. Curriculum di Lavrov: laurea in relazioni internazionali, a 24 anni inviato diplomatico sovietico in Sri Lanka, a 26 arruolato al ministero degli Esteri, a 31 consigliere sovietico all’Onu (è l’Urss di Leonid Breznev, e probabilmente Di Maio ignora chi fosse), per sette volte presidente del consiglio di sicurezza dell’Onu, viceministro agli Esteri con Boris Eltsin, da quasi sedici anni ministro degli Esteri di Vladimir Putin. Dunque si incontrano. C’è parecchio di cui parlare: le sanzioni economiche alla Russia, la Libia dove Mosca ha appena mandato delle truppe, la questione Ucraina su cui oltretutto si sta costruendo l’impeachment per Donald J. Trump, eppure la coppia viene fuori dal bilaterale e Di Maio ottiene di aprire la conferenza stampa e informare la comunità internazionale del suo grande successo diplomatico: forse (ma forse) si toglieranno le sanzioni sul parmigiano reggiano. Un’impercettibile increspatura piega il volto metallico di Lavrov, ma Di Maio cavalca l’entusiasmo, particolareggia il colpo di genio geogastronomico partorito sulla quantità di lattosio nei latticini freschi e in quelli stagionati eccetera.
Ora, non è che i suoi predecessori avessero la statura di Metternich. Alla Farnesina non si rimpiange Enzo Moavero Milanesi, che le cose le sapeva a menadito, ma aveva l’intraprendenza e la personalità di un lemure. E il declino della diplomazia italiana non è certo imputabile a Di Maio: la nostra importanza di frontiera ai tempi della Guerra fredda, che ci imponeva ministri di buon calibro, è tramontata da un trentennio, e il nostro residuale ruolo nel Mediterraneo svapora da lustri. Però per qualche tempo abbiamo avuto presidenti del Consiglio, per esempio il Silvio Berlusconi che mette a un tavolo russi e americani a Pratica di Mare, o il Massimo D’Alema dei bombardamenti su Belgrado, di non banale influenza internazionale.
Ora c’è Giuseppe Conte, la cui forza persuasiva si esprime giusto a Bruxelles, sul presupposto vagamente ricattatorio che dopo di lui il diluvio, cioè Matteo Salvini. Fine. E non è argomentazione da far presa su Trump o Putin o sui turchi, e tantomeno sui cinesi e sugli iraniani. Di Maio alla lunga è niente più che il frontman di un esecutivo debole e smarrito, ed è l’approdo surreale di una politica debole e smarrita da quel dì. E non può che metterci del suo. Non ci si poté credere, una ventina di giorni fa, quando Di Maio è stato ricevuto da Fayez Al-Sarraj (il presidente riconosciuto dalla comunità internazionale) a Tripoli. Sarraj era ben contento, sperava di raccattare qualcosa dall’Italia siccome il suo nemico, Khalīfa Belqāsim Haftar, ha appoggi francesi, russi, e soprattutto egiziani e dagli Emirati. E invece Di Maio gli offrì dialogo, mediazione, forse anche una fiaccolata, ma nemmeno due fucili. Poi vide Haftar, gli disse le stesse cose, per Haftar fu meglio di una sviolinata, e si affrettò a comunicare al pianeta - ma soprattutto a Sarraj, irridendolo - che Di Maio era proprio un bravo giovane, e sarebbe stata una fortuna incontrarlo prima, uno del genere. Capito che capolavoro? Sarraj ha subito salutato l’Italia e aperto i confini alle truppe turche di Recep Tayyip Erdoğan. Il resto è faccenda delle ultime ore: la missione europea a Tripoli, prevista per ieri, e a guida a petto vanamente in fuori di Di Maio, saltata per manifesta inutilità, e sostituita da un minivertice a Bruxelles le cui deliberazioni non sono attese da un mondo trepidante, diciamo così. E seguita dal viaggio in serata a Istanbul del nostro ministro per incontrare l’omologo turco, Mevlüt Çavuşoğlu.
Speriamo che almeno lì ne ricavi qualcosa, ma si conservano dubbi e non soltanto per pregiudizio malevolo. La competenza di Di Maio sugli affari internazionali è ormai rinomata oltreconfine, dagli antichi amoreggiamenti con Putin, a quelli coi cinesi sul 5G (la famosa sicurezza annullata da un calcolo costi-benefici), al sostegno in solitaria globale a Nicolás Maduro in Venezuela, agli incontri coi gilet gialli nella tendenza di Christophe Chalencon, uno che incitava i militari francesi a entrare all’Eliseo per buttare dalla finestra il presidente Emmanuel Macron. Così adesso a Roma ci si chiede perché il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, non ci abbia avvertito del raid per far fuori il generale iraniano Qassem Suleimani, e chissà, magari la risposta sta anche nel fatto che, l’ultima volta in cui si sono visti, Pompeo si è sentito chiamare Mr. Ross da Di Maio (un allegro bis di Mr. Ping). La credibilità è quella. E, purtroppo, sarà anche l’alibi per un governo che sperava di mandare il suo ministro degli Esteri in giro a vendere parmigiano.
Mattia Feltri, La Stampa, 8 Gennaio 2020