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21/01/2020 06:00:00

Marsala e il legame con Tullio De Mauro. Parla la moglie: "Ecco le parole per ferire..."

 di Marco Marino

Era il 1° settembre del 2016 quando la città di Marsala - «in segno di alta considerazione per l’intensa attività culturale, umana e sociale [...] e per l’attaccamento e il consolidato senso di appartenenza al territorio di cui, da oltre dieci anni, la comunità locale si onora» - conferì al celebre linguista Tullio De Mauro la cittadinanza onoraria.

De Mauro, come ricordava la motivazione della cittadinanza, aveva eletto già da dieci anni la contrada Spagnola di Marsala a suo buen retiro. Un posto in cui studiare, riordinare gli appunti, scrivere, passeggiare. E da questo estremo lembo di Sicilia, infatti, licenziò molti dei suoi studi, e tra questi l’ultimo risale al 2016. Il suo titolo, in questi giorni, risulta essere quasi profetico, «Parole per ferire».

A tre anni anni dalla scomparsa, questo pomeriggio, alle 17.30, al Complesso Monumentale San Pietro, l’Amministrazione Comunale ricorderà la figura del suo illustre concittadino con la presenza di due ospiti d’eccezione: Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, che proverà a risolvere l’interrogativo, “La democrazia è in crisi?”; e Silvana Ferreri, docente universitario e moglie di De Mauro, con un intervento che prenderà le mosse proprio da «Parole per ferire».

Con la professoressa Ferreri abbiamo voluto anticipare alcuni degli argomenti che animeranno il pomeriggio di oggi.

Di fronte a me ho le «Lezione di linguistica teorica» di Tullio De Mauro, dove alla fine della Premessa leggo: “Contrada Spagnuola (Saline di Mozia), agosto 2006-agosto 2007”. Cosa vi ha portato a Marsala e cosa vi ha spinto a restare?

È successo in modo casuale. Tutto nacque con l’invito di nostro figlio, che aveva affittato una casa in contrada Spagnola. Marsala ci piacque moltissimo, stavamo bene, lavoravamo bene. Ci piaceva tutto: i tramonti, il mare a un passo. Finimmo così per trasferirci in pianta stabile. Ogni anno tornavamo appena possibile. Venivamo a ritemprarci.

D’altronde, la Sicilia è sempre stata nel vostro destino. De Mauro, nella «Prima lezione sul linguaggio», ricorda che ebbe proprio a Palermo la prima cattedra di Linguistica.

Io sono siciliana, sono nata a Palermo, la Sicilia è la mia terra di appartenenza. Per Tullio è stata qualcosa di più e non solo per l’università in cui è diventato ordinario di Linguistica generale. È stata la terra in cui suo fratello, il giornalista Mauro De Mauro, prima ha abitato e poi fu fatto scomparire dalla mafia e mai più ritrovato. Questo ha segnato in maniera irrevocabile il legame con la Sicilia. Nonostante questo evento, che avrebbe potuto portare degli sconquassi emotivi, Tullio è sempre rimasto legato affettivamente alla Sicilia.

Sono tante le domande sulle attività e sul pensiero di De Mauro. Vorrei cominciare col chiederle come si lega l’aggettivo “democratico” al concetto di “educazione linguistica”.

L’aggettivo “democratico” per Tullio era importantissimo. Spesso c’è stato chi negli anni glielo ha contestato, dicendo che aveva un sapore di antico, di superato. Tullio, un po’ sorridendo - e un po’ no - rispondeva che era innanzitutto rispettoso del dettato costituzionale, perché negli articoli della Costituzione risiede l’idea che bisogna rimuovere gli ostacoli di qualunque natura per permettere a tutte e a tutti di accedere alla conoscenza, attraverso una lingua che deve essere una lingua comune.

Sotto quest’aspetto, Tullio De Mauro e Don Milani hanno rivoluzionato il modo di pensare l’educazione. Quanto ci siamo avvicinati e quanto ci siamo allontanati dai loro insegnamenti?

De Mauro non ha conosciuto subito Don Milani. Anzi lui stesso dice che proprio quando scrisse il suo primo grande studio, «Storia linguistica dell’Italia unita», se avesse conosciuto Don Milani, si sarebbe risparmiato del lavoro! Quando cominciò a studiarne l’opera, erano molte le consonanze. A partire dall’idea che una scuola dovesse farsi carico di coloro che sono più deboli, di coloro che sono svantaggiati, dal punto di vista linguistico e culturale, per possibilità economiche, per i livelli di istruzione familiare.

La scuola italiana ha fatto sicuramente molti passi in avanti.

La scuola pubblica italiana ha fatto un grandissimo lavoro, ha cercato di lavorare nello spirito della Costituzione, nello spirito della rimozione degli ostacoli, di tutti gli ostacoli. C’è stata la bella pagina dell’innalzamento dell’obbligo scolastico, siamo nel 1962: pare un tempo che si perde nella memoria, e invece nella storia linguistica di chi ha un po’ di anni alle spalle è un punto nodale. Prima del 1962 a dieci anni si doveva scegliere se proseguire gli studi o andare all’avviamento al lavoro. E l’avviamento era riservato a chi non aveva mezzi, alle famiglie che avevano bisogno delle braccia di un bambino di dieci anni. Quando l’obbligo passò dai dieci ai tredici anni, cioè alla fine della scuola media, l’Italia ha fatto davvero un passo in avanti.

E oggi?

La scuola italiana ha mantenuto e mantiene quest’idea di inclusione, di avanzamento sociale. Certo l’effetto di ‘ascensore sociale’ si è un po’ perso. Avrà letto qualche giorno fa la notizia della presentazione di un istituto, a Roma, in cui i plessi della scuola vengono suddivisi in base al censo delle famiglie: la scuola che accoglie gli altoborghesi, la scuola che accoglie i bambini di basso livello… Una scuola che si presenta così sembra avere perso il suo senso, cioè l’apertura a tutte le componenti della società. Davanti a queste situazioni la scuola soffre. E forse la colpa è di tutti noi, di noi che facciamo parte della società e non ci curiamo di affiancare gli insegnanti nella fatica di gestire i figli di tutti.

Questo pomeriggio parlerà delle «Parole per ferire». Ci può anticipare qualcosa?

È il titolo dell’ultimo lavoro che mio marito ha completato a Mozia nell’estate del 2016. Un censimento delle parole di odio, delle parole che feriscono: ma non sono le parole in sé a far male ma coloro che le usano con intento di colpire l’interlocutore. Per motivi di lavoro ho controllato recentemente diversi siti, scambi sui social network e mi sono balzati agli occhi per la loro virulenza usi linguistici finalizzati a far male all’altro. Un caso che mi ha molto colpito è stato quello legato alla cantante Emma Marrone. La cantante ha chiuso un suo concerto dicendo: “Aprite i porti”. Una frase che ha scatenato sui social qualcosa che è andato al di là di ciò che è immaginabile: la Marrone qualche mese dopo scrive su facebook che si sarebbe allontanata dalle scene e dai media perché stava male. Le reazioni a quel post sono molto forti; ne ricordo uno: “ben venga che ti sia venuto il cancro di nuovo”. Qualcosa che non avremmo mai detto, qualcosa che mai diremmo guardando negli occhi una persona affetta da una così grave patologia. Eppure questo è stato possibile attraverso un post su facebook. Quindi questo volevano dire e dicono le «Parole per ferire»: attenzione all’uso che facciamo delle parole, possono ferire, fare male.

Prima ha ricordato le critiche all’aggettivo “democratico”. Negli ultimi tempi sembrano molti gli oppositori dell’educazione linguistica democratica. Per quale motivo?

Bisognerebbe capire cosa significa “educazione linguistica democratica” prima di assegnarle colpe. E a me piace ricordare due cose. La prima è che le Dieci Tesi per l’Educazione linguistica democratica che De Mauro scrisse nel 1975 , e poi divennero manifesto del GISCEL (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica), sono conosciute da pochissimi docenti, nonostante il loro lungo cammino. Dal 1975 - abbiamo 45 anni di storia alle spalle - queste tesi sono conosciute dal 20% degli insegnanti e sono applicate nei loro principi costitutivi da una quantità ancora più ridotta, secondo due indagini fatte nel 2005 e nel 2019. È vero, allora, che all’interno del mondo della scuola la diffusione delle idee che De Mauro propugnava è stata molto limitata e, dunque, di questo gli oppositori dovrebbero tenere conto: non c’è stata troppa educazione linguistica democratica, forse troppo poca.

Quindi a cosa si devono imputare le sempre più disastrose rilevazioni sulle capacità linguistiche degli studenti?

L’analisi che si fa delle capacità linguistiche è una lettura che non tiene conto di tante cose. Non tiene conto, innanzitutto, del fatto che la scuola italiana riesce molto bene nei primi livelli, ovvero la scuola elementare ha sempre risultati di eccellenza, di eccellenza non solo in Italia: grandi inchieste internazionali assegnano all’Italia uno dei primi posti. C’è una buona tenuta anche nella scuola media; il problema si localizza nel salto dalla scuola media alle scuole superiori, è lì che i nostri allievi manifestano delle carenze nella lettura e nella comprensione di un testo. Allora come istituzioni dovremmo capire come agire su quel segmento.

Come intervenire, a questo punto?

Via via che la scuola si è aperta a tutti, e così anche l’università, si vedono e si sentono gli effetti del livello socio-culturale familiare. Le famiglie più deboli dal punto di vista linguistico-culturale, col proseguire dell’istruzione dei loro figli, sono meno in grado di seguirli. Ci sono ragazzi che nei propri ambiti familiari non hanno né libri né una famiglia che possa aiutarli se emergono dei problemi. E si apre, quindi, un’altra questione che De Mauro aveva ben chiara nella sua ricerca: c’è un problema relativo ai livelli di alfabetizzazione degli adulti. Dunque se noi volessimo affrontare davvero i problemi che hanno i nostri ragazzi, e rispetto ai quali gli insegnanti si trovano in difficoltà, avremmo bisogno di più azioni concorrenti, bisogna lavorare sulla scuola e sulla famiglia. È un problema di scelta politica del Paese.