Giacomo Di Girolamo ha pubblicato su questo giornale un lungo articolo che meriterebbe di essere stampato ed esposto sulle pareti di tutte le scuole di giornalismo italiane, e magari anche nelle redazioni di molti giornali.
L'articolo s'intitola: “Se l'ultima trincea della lotta alla mafia è la libertà d'insulto”. Ed è un esempio più unico che raro, credo, di lucidità intellettuale e di onestà professionale in tempi che a definire moralmente confusi sarebbe un eufemismo puro.
Non intendo qui rievocare i fatti, ormai ben noti: la condanna del giornalista trapanese Rino Giacalone per avere commentato, sul portale di Libera, la notizia della morte del boss mafioso Mariano Agate con le parole: “Se n'è andato un pezzo di merda”. Condanna subito bollata dall'universo mondo dell'informazione e dell'antimafia come un attentato alla libertà di stampa e di espressione. Con il sigillo ufficiale e veemente di Giuseppe Giulietti, il presidente della Federazione nazionale della stampa italiana, che sull'argomento ha tenuto perfino una conferenza stampa a Palermo al fianco di Claudio Fava. Come dire: pietra tombale sul dissenso. Evviva Giacalone! Anche lui come Salvini una specie di Silvio Pellico, martire di una giustizia spietata.
Ma è proprio al dissenso che Di Girolamo s'è appellato con coraggio su questo giornale. Io qui non voglio ripetere le sue argomentazioni: leggete l'articolo, o rileggetelo, perché è ricco di importanti riflessioni. Farà bene a tutti. Farà bene, per esempio, sentirsi dire che: “un insulto ad un morto lede la dignità dell'uomo, anche se quell'uomo è un mafioso”. Perché questo, poi, è il punto fondamentale del discorso. È questo il principio morale – e deontologico – dal quale ci è impossibile derogare. Pena la porta aperta al definitivo imbarbarimento della comunicazione, perché se anche la stampa si adegua al clima dell'odio e dell'insulto esaltato nell'orrenda canea dei social, allora, per dirla col motto dei tempi antichi, veramente “pietà l'è morta”.
Caro Giacomo, nella mia lunga carriera di giornalista professionista, vissuta in gran parte nel mondo dei quotidiani, io non ricordo di avere mai osservato esempi di turpiloquio e di violenza verbale da parte dei miei tanti direttori. (Poi anch'io per alcuni anni fui direttore, di un mensile di cultura, e su questo punto fui sempre inflessibile: no assoluto agli insulti e allo sbracamento verbale). E la ragione ovvia di questo imperativo è poi una sola: il rispetto umano. Il semplice e inviolabile rispetto che ciascuno di noi deve avere per la dignità dell'altro, chiunque egli sia. Fosse pure un feroce mafioso, come giustamente dici tu. Tutto qua, ed è inutile girare troppo intorno a questo elementare discorso.
Uno dei miei direttori fu Indro Montanelli. Con lui lavorai per quindici anni, e lo conobbi molto bene anche sul piano umano. Lo definivano un “toscanaccio”, un giornalista dalla penna virulenta. Eppure mai, mai e poi mai, io ricordo di avere letto una sua parola veramente volgare. E nemmeno di averla udita, quelle tante volte che alla sera si lavorava a fianco a fianco in tipografia, in un clima di passione e di libertà goliardica che avrebbe pur consentito lo scivolamento in qualsiasi forma di intemperanza. Indro non diede mai del “pezzo di merda” a nessuno, nemmeno al brigatista che gli sparò a una gamba. Noblesse oblige, caro Giacomo. Forse perché erano altri tempi. Ma io sono certo che se Montanelli avesse letto il tuo articolo ti avrebbe chiamato subito a scrivere per il suo Giornale.
Massimo Jevolella