«La villa era la rappresentazione plastica delle conquiste di Albert: il successo imprenditoriale, l’ingresso a pieno titolo nella buona società palermitana, una grande famiglia ricca di figli e di affetto». Albert Ahrens, imprenditore ebreo di origine tedesca, arriva a Palermo nel 1875 e poco alla volta, agli inizi del Novecento, riesce a dare stabilità e struttura a tutte le sue speranze. «LIK DÖR», ‘La luce è là’, è la formula che accompagna il suo percorso di ascesa sociale e spicca sulla facciata della sua villa, perfetta sintesi architettonica della sobria solidità dei suoi progetti.
Le leggi razziali, però, arrestano tutte le iniziative e i progetti della famiglia Ahrens, che, privata dei suoi diritti commerciali, viene spinta irrimediabilmente verso il declino. La villa, svenduta al demanio militare, rimarrà confinata in un assordante silenzio fino al 2008, quando il Comune palermitano decide di dedicare una strada ad Albert.
Adesso i protagonisti di quella storia abitano all’interno di un romanzo, che si intitola proprio «La luce è là». Lo ha scritto Agata Bazzi, discendente della famiglia Ahrens, che oggi, 27 gennaio, Giornata della Memoria, presenterà il suo romanzo al Complesso Monumentale San Pietro, alle 18.
Quando è nata l'esigenza di scrivere questa storia?
Non c’è un momento preciso in cui è nata. In realtà, io e tutti i miei parenti abbiamo sempre conosciuto le storie di famiglia. Tutte le nostre nonne ci raccontavano le vicende eroiche del bisnonno Albert, cominciate nel 1875. La nostra è una famiglia molto unita: siamo cresciuti a casa Ahrens, delle sei figlie di Albert, una era mia nonna. Pensi, le figlie di Albert sono diventate le nonne di ventidue cugini tra i quali c’è un rapporto continuo e costante. E tra di noi cugini s’è sempre detto che bisognava scrivere il libro sugli Ahrens.
Cosa vi ha convinto?
A un certo punto è saltato fuori il diario di Albert, che era stata conservato da Gabi Morello, un nostro zio, che sarà con me a Marsala, lunedì. Lo ha conservato per più di cinquant’anni; è un quadernino, un quadernino molto piccolo, che racconta una storia che nessuno di noi conosceva, cioè l’infanzia e l’adolescenza del bisnonno. Allora, colmato questo buco di memoria, con una mia cugina abbiamo cominciato a raccogliere le informazioni che tutti i cugini avevano ricevuto ciascuno dalla propria nonna. E così abbiamo ricomposto il puzzle. Ognuno di noi aveva oggetti, gioielli, ricordi, aneddoti, battute di spirito, fotografie.
E da tutto questo è sorto il romanzo.
È stato un lungo lavoro letterario, perché una cosa è scrivere la storia dei propri nonni, tutt’altra cosa scrivere un romanzo. Ho impiegato alcuni anni a scriverlo, ho imparato un mestiere che non conoscevo. La scrittura letteraria è molto diversa dalla scrittura tecnico-scientifica o dalla scrittura di un memoir.
A raccontare la storia è Marta, una delle otto figlie di Albert. Perché proprio lei?
È uno di quelle circostanze di scrittura di cui le dicevo. L’io narrante è un trucco letterario attraverso il quale chi scrive trasmette una serie di idee, di sentimenti, di sensazioni, senza parlare in prima persona, senza assumersi l’arroganza di parlare in prima persona. L’io narrante permette di dare spazio alla fantasia; è evidente, io non c’ero, quindi non posso conoscere con esattezza i sentimenti dei protagonisti, ma Marta c’era. E dietro la voce di Marta, si celano tre persone. C’è la vera zia Marta, che io ho conosciuto; l’ho conosciuta molto anziana, ma l’ho conosciuta: era una donna intelligente, arguta, sordissima. Poi c’è la Marta che è l’io narrante del libro; infine ci sono io stessa, travestita da Marta, che dico quello penso, che do la mia interpretazione sugli eventi.
Sarà stata una persona davvero incredibile Marta.
L’handicap reale della zia Marta è stata una grande suggestione. Ho supposto che la zia Marta avesse la capacità di capire più degli altri. E devo confessare che era davvero straordinaria. Si figuri che nel Trentaquattro ha scritto due romanzi gialli di una tale modernità, che potrebbero essere oggi pubblicati da Sellerio con la firma di Manzini. Sono due romanzi che ti fanno chiedere come sia possibile che Marta Ahrens, una signorina sorda di buona famiglia, si metta a parlare di stupri di droghe di rapimenti.
Quando nel 1875 Albert arriva a Palermo, cosa lo spinge a restare?
Credo che lo animino due fascinazioni. Tutt’e due molto concrete, fascinazioni che si connotavano come progetto, o come programma, piuttosto che come sogno. La prima fascinazione è quella per i viaggi: lui amava girare per il mondo, parlava sei lingue; erano anni di scoperta e lui si inquadrava benissimo in questo desiderio di modernità, di allargare le proprie conoscenze avendo esperienza del mondo.
La seconda?
La seconda fascinazione era la fascinazione dell’imprenditore. Che trovava una condizione economica e fiscale particolarmente favorevole, perché con l’Unità d’Italia il neogoverno italiano faceva delle leggi di agevolazione fiscale per chi voleva investire in Italia. Nel Sud c’erano risorse, c’erano materie prime, c’era manodopera a basso costo, però c’era anche l’incapacità di una classe egemone di trasformare queste risorse primarie in prodotti industriali: c’era l’uva, ma non c’era il vino; c’era lo zolfo, ma non lo estraevano...
... Bisognava trovare chi sapesse sfruttarle e valorizzarle.
Arrivavano tantissimi imprenditori stranieri. Erano centinaia alla fine dell’Ottocento, c’è un bellissimo libro di Orazio Cancila, si intitola «Storia dell’industria in Sicilia», che fa centinaia di nomi, arrivavano per convertire queste risorse inutilizzate in prodotti industriali: facevano strade, ferrovie, porti. Albert Ahrens esportava fino in Sud America. È così che la Sicilia e Palermo nel mondo.
Oltre alle ambizioni imprenditoriali, Albert matura dentro di sé il desiderio di “diventare palermitano”. Sbaglio?
L’identità originaria era fortemente tedesca. Ma come tutti quelli che vengono a investire, a lavorare, a offrire le proprie competenze, ad acquisire nuove conoscenze, a poco a poco si diventa cittadini del luogo in cui si abita. Chi va in un altro paese, porta qualcosa di se stesso e prende qualcosa dagli altri, quando c’è questo scambio, si diventa cittadini. Palermo in quel momento è un luogo in cui Albert si riconosce proprio perché c’è questa vitalità economica, culturale, imprenditoriale che lo accoglie e in cui lui si sente a suo agio.
Abitano nella Palermo dei Florio, eppure sono diversissimi da loro: non amano il Liberty, lo sfarzo.
Erano gente sobria, erano tedeschi da questo punto di vista. Non avevano manifestazioni splendide come avevano i Florio. Erano culturalmente diversi. Fanno parte dei salotti, delle feste, però sempre con questo aplomb sassone. E credo che in famiglia continui a essere così; la battuta, “Noi siamo gente sobria”, aleggia ancora a casa nostra.
Lei è architetto. Sarei curioso di chiederle come ha costruito Palermo, la sua città, dentro il suo romanzo.
Camminando e guardando fotografie. Io pensavo di conoscere Palermo da urbanista, sono stata Assessore al Territorio, ho lavorato nel gruppo del Piano Regolatore, mi sembrava di conoscerla. Poi però mi sono posta il problema di cosa provasse Albert mentre camminava per i vicoli della Palermo vecchia, ho cominciato a guardare fotografie, concentrandomi su cose diverse.
Per esempio?
Guardavo le pavimentazioni, cioè cosa sentiva Albert sotto i suoi piedi. Oppure, nei mercati storici, mi soffermava sui suoni. Lui sentiva le urla dei venditori, oggi si sentono soltanto i motorini. Che per fortuna lui non conosceva. In via Argenteria si picchiava con i martelli sul metallo, questo suono è scomparso. Ecco, quante cose sono scomparse, la maggior parte sono tutte cose che non si avvertono con la conoscenza tecnica, è necessario chiudere gli occhi per vederle e per sentirle, queste cose. È un altro modo per abitare la città.
Oggi è la Giornata della Memoria. Gli Ahrens sono stati vittime delle leggi razziali. Secondo lei, la letteratura che ruolo svolge nella nostra comunità contro gli odi razziali, contro il timore che una stagione simile si ripresenti?
In questi giorni sono andata in moltissime scuole a parlare di questo romanzo e di questa famiglia. Tutte le volte ho detto una cosa ai ragazzi: ricordatevi la responsabilità individuale. Hitler è stato eletto, cioè ci sono state tante persone che hanno voluto che andasse al potere. La responsabilità individuale è una cosa che bisogna insegnare ai ragazzi e la letteratura è uno dei tanti strumenti che veicola questo messaggio. Da questo punto di vista gli Ahrens avevano un grande senso di responsabilità, mia madre mi diceva sempre - e prima a lei lo ripeteva sua madre, che era Margherita Ahrens -, quando succede qualcosa di brutto, domandati cosa ho fatto io per contribuire al fatto che questa cosa sia successa. È una lezione che gli Ahrens ci lasciano, un messaggio fondamentale da trasmettere agli altri.