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12/03/2020 06:00:00

Tutti a casa

di Marcello Benfante

Mai come oggi abbiamo avvertito la sensazione inquietante e disorientante che la Cina è vicina e che nel nostro pianeta non siamo che una sola, fragile, umanità esposta alle offese di un Diluvio universale che a prima vista sembrava poco più insidioso di un normale temporale.

Bisognerà raccontarla per filo e per segno, a futura memoria, questa assurda storia sospesa tra angoscia e incredulità, ossessione e scetticismo, catastrofismo e menefreghismo.

Raccontare la vita (e l’amore) ai tempi del Coronavirus. Raccontare, come in un romanzo apocalittico, la vita allarmata e prudente (ma non sempre) scandita dai notiziari e dai comunicati ufficiali (o dalle fake news) incalzanti e ansiogeni come bollettini di guerra.

La vita di segregazione e rinuncia (o di sfida incosciente) in cui siamo piombati improvvisamente da un giorno all’altro, ritrovandoci nell’abisso (non insormontabile, tuttavia) di un’esistenza in una certa misura disumanizzata, in cui cioè il principale pericolo viene proprio dai rapporti umani.

La parola d’ordine della campagna preventiva, mai pronunciata peraltro, è il “noli me tangere” imposto dal Cristo risorto alla Maddalena (per esempio, in un dipinto di Tiziano). Abolire i contatti, insomma, per rimanere intatti, ovvero sani e puri. Terribile interdizione.

Prendere le distanze (almeno un metro, meglio due, preferibilmente un chilometro).

Allontanare il vicino, il prossimo. Anzi, abolire ogni prossimità.

Non ci si bacia più, tra amici, sodali, parenti, coniugi, amanti. Né ci si abbraccia. E neppure ci si stringe la mano. Ci si saluta con i gomiti (che finora erano in genere serviti a farsi largo tra la gente, a respingerla). O con i piedi (che finora erano deputati a esemplari maltrattamenti). O con impacciati inchini di sapore vagamente orientale. Nascono nuovi riti, buffi e apotropaici, nuove cerimonie, nuovi tabù, nuovi asettici formalismi. Si evita quanto si può la gente, essendo ciascuno un potenziale untorello. Si diventa tutti un po’ più misantropi.

Ha innegabilmente delle conseguenze asociali e perfino anaffettive, questa strana epidemia. Ma anche delle ricadute positive: maggiore igiene nella via quotidiana, per esempio (specie in una città come Palermo in cui tradizionalmente la pulizia difetta e ha nomea di fisima effeminata).

Anni fa il fotografo-editore Enzo Sellerio affermava di non abitare a Palermo ma a casa propria. Questo “scandalo” scagliato contro la palermitudine è oggi divenuto norma consigliata, caldeggiata, perfino imposta (salvo eccezioni autocertificate).

Si auspica che tutti quelli che possono farlo si costringano volontariamente all’autoesilio domestico, alla precauzione funzionale della quarantena casalinga.

Scomodissima comodità claustrale, non c’è dubbio. Ma non priva di feconde potenzialità. E non è necessario arrivare ai paradossali viaggi del Principe di Mompilieri di cui ha narrato la catanese Annalisa Moncada, che avendo fatto voto di andare in pellegrinaggio in Terrasanta come un Crociato, risolve di compierlo senza muoversi di casa e senza colpo ferire, percorrendo l’esatta distanza all’interno del suo palazzo avito. Non tutti ovviamente dispongono di spazi così ampi e confortevoli da consentire simili simulazioni anaerobiche. Ma tutti o quasi possono trovare giovamento, specie in questi tempi “pestilenziali”, da un profilattico rintanamento.

Si passi quindi serenamente (questo è l’auspicio) dalla movida all’appartamento. Da “tutta mia la città” (un deserto che non conoscevamo così desolante) alla woolfiana “stanza tutta per me”. Dalla claustrofobia alla claustrofilia.

Tutti a casa, quindi, nel senso di una Liberazione (a malo). Tutti al riparo dalla Storia che impazza, come nel celebre film di Luigi Comencini in cui il movimento spontaneo di ritorno a casa dei soldati sbandati ribadisce il senso della fine della guerra. Una Resistenza, insomma. E una guerra. Del mondo, contro noi (in cui però la parte dei Marziani tocca a noi stavolta, letalmente vulnerabili a un virus influenzale).

Ciò significa che le limitazioni alla mobilità, che sembrano condannarci agli arresti domiciliari, possono essere misure salvifiche e perfino redentrici. Nel chiuso della casa, come al riparo della siepe leopardiana, si apre potenzialmente un profondo mondo interiore, contrapposto alla superficialità che spesso contraddistingue il mondo esteriore.

Si apre (o può aprirsi) cioè uno spazio/tempo di riflessione, di introspezione, di meditazione. Un volo. Un naufragio, forse, ma dolcissimo (il mare, come il cielo, in una stanza).

E si riscopre, via dalla pazza folla, un ritmo lento, privo di assilli e di doveri, di impegni ineludibili, che è fatto (o potrebbe esserlo) di buone letture, di fertile ozio, di salubre riposo, di affetti familiari, di calorosi cantucci, di giochi felicemente improduttivi.

Di noia, anche, o perfino di frustrazione, certo. Ma non più del solito, a pensarci bene, se riflettiamo al caos strombazzante a cui - in attesa che la notte passi, e ha da passare - l’incubo del contagio ci ha sottratti.