di Marco Marino
È una situazione del tutto inedita quella che ci costringe in questi giorni a uscire il meno possibile dalle nostre case. E non solo perché i nostri spostamenti sono limitati alle "stringenti necessità", ma soprattutto perché siamo finiti per scontrarci col nostro modo di vivere e di reagire alla solitudine.
Dalle pagine del suo zibaldone, "Il Malpensante", Gesualdo Bufalino si chiedeva: «Saprò mai fare della mia solitudine una passione?». Oggi che tutti noi - dopo averne tenacemente testimoniato l’inesistenza - la stiamo finalmente conoscendo, la nostra solitudine. Oggi, dicevo, potremmo rispondere di sì, che possiamo - o forse dobbiamo? - farne la nostra passione. Salvo imprevisti.
È un’espressione ambigua “Salvo imprevisti”, che può celare sentimenti diversi dietro la prima impressione che ci suscita. È anche un libro, “Salvo imprevisti”, un graphic novel stupendo firmato da Lorena Canottiere per Oblomov Edizioni, che sovrappone la solitudine di tre persone - la scrittrice Katherine Mansfield, lo scienziato Liam, l’adolescente Marzia - alla curiosa indagine sul genere umano che fa una simpatica intelligenza artificiale di nome Rocìo.
Ne abbiamo parlato con la sua autrice.
È appassionante il ritratto che fai di Katherine Mansfield. Quando è nato il tuo amore per la sua opera?
Ho scoperto i racconti di Katherine Mansfield quando avevo vent'anni, più o meno. Mi ha affascinato subito il suo modo di scrivere, di descrivere i personaggi, le situazioni, di riuscire a mutare in un soffio le atmosfere: riesce a passare da momenti di felicità o serenità assoluta al cinismo, la cattiveria, la meschinità senza che il lettore riesca mai a trovare il punto esatto del mutamento. È una narratrice ferocemente onesta dell'umano e la sua scrittura è sempre viva ed emozionante.
E quando hai cominciato a pensare che da autrice di ciò che leggevi, potesse diventare un tuo personaggio?
Quando ho iniziato a pensare al libro che poi è diventato "Salvo Imprevisti" mi è venuta voglia di rileggere i suoi diari, non so bene perché, e lì ho trovato traccia del suo periodo solitario in Costa Azzurra, dove si recò subito dopo la morte del suo adorato fratello minore e dove appuntò di vederlo e di parlare ancora con lui. Era una situazione perfetta per quel che volevo raccontare. Ho riletto i suoi racconti e la raccolta delle innumerevoli lettere che scrisse al marito, John Middleton Murry, ed è entrata a far parte del racconto, anzi, è stata la prima dei quattro personaggi che compongono il libro.
"Salvo imprevisti" è un libro che, da una parte, sembra voler restituire tutte le cromie della solitudine e, dall'altra, dirci che la solitudine è una condizione impossibile. C'è sempre una voce accanto a noi, qualcosa da inseguire. Sbaglio?
La solitudine è una condizione esistenziale viva, ricca, o forse lo è diventata ancora di più ultimamente, da quando viviamo in un mondo che ci chiede di essere elementi “attivi” di una società frenetica che, peraltro, pare non abbia bene in mente dove voglia andare. È uno stato che pone delle scelte: puoi scegliere che ti va bene o puoi cercare di uscirne, ma è sempre una situazione introspettiva. Se ti fermi, se rimani devi guardarti attorno, dentro di te, se vuoi andartene devi affrontare e capire ciò che ti tiene separato dal resto. L'indifferenza, l'apatia non sono possibili. I personaggi della storia sono in condizione di solitudine, tutti. Se Katherine, Liam e Rocìo (l'intelligenza artificiale, unico personaggio non umano) sono soli senza averlo scelto né voluto, Marzia invece si tiene distante dalle persone, dai famigliari, dai coetanei, dalla psicologa da cui è costretta ad andare. È molto lucida su questo: non vuole fare parte di un mondo che ritiene immaturo, con cui sente di non avere niente da spartire.
Una distanza che serve per proteggersi, in fondo.
Il libro, e soprattutto la parte su Marzia, parla molto di comunicazione e la nostra società è satura di comunicazione fasulla, veloce, superficiale. Quello di cui sento il bisogno è una socialità che permetta uno scambio reale tra le persone, ma perché questo succeda è necessario che ciascuno abbia tempo per sé, abbia spazio per guardare se stesso e il mondo e pensare al di là dalla valanga di informazioni sterili che ci arrivano ininterrottamente. È per questo che la solitudine dei miei personaggi è così violenta, non lo sarebbe di per sé. Hai ragione tu, la solitudine nasconde sempre una ricerca.
Altro argomento cruciale del libro è sicuramente il corpo. Cosa significa raccontare il corpo, disegnarlo, in questa nostra epoca di smaterializzazione?
Anche sulla rappresentazione del corpo c'è un estremo bisogno di onestà. Ci viene proposta un'idea stereotipata e ipocrita del corpo, a cui aderire: i canoni secondo cui lo pensiamo sono sempre più ristretti, angusti ed essenzialmente estetici. Mi vengono in mente le cantanti virtuali giapponesi che riempiono gli stadi ai propri concerti e con cui tantissimi uomini scelgono di sposarsi e che, pur essendo personaggi inventati, non sono per niente fantasiosi, anzi, rispecchiano canoni estetici rigidissimi e convenzionali. Oppure la difficoltà con cui viene accolta la differenza di genere. Solo i linguaggi artistici esplorano ancora che cosa prova un corpo, come reagisce, qual è la sua totalità, la sua forza e la sua debolezza, che cosa comporta il suo funzionamento, la giovinezza, la vecchiaia, l'amore, la paura, i sentimenti. Come con la comunicazione, il corpo è un altro concetto che è stato dapprima svuotato e poi ricostruito in maniera che assecondi un'immagine che non ha nulla a che vedere con la vita reale e che proprio per questo è estremamente pericolosa. Il corpo è diventato un guscio di rappresentanza, come una falsa identità su internet. Questa ipocrisia è causa del problema di identità e di consapevolezza di cui siamo vittime oggi - chi più, chi meno.
Un'ultima domanda. Sul titolo. Cosa nasconde dietro l'espressione "Salvo imprevisti"? Paura, rassegnazione...?
Alcuni lettori hanno pensato che fosse rassegnazione, ma per me ha un altro significato. I tre personaggi umani del libro vivono la loro situazione cercando in se stessi o negli altri la causa allo spaesamento che provano, alla fatica che fanno per vivere cercando un nesso tra le loro passioni e chi sta loro intorno. Tutti e tre arrivano ad un punto di questo percorso in cui si trovano soli e persi, sembra che siano rassegnati ad una fine che fa male perché non trovano una “variante” che li renda visibili e soprattutto, renda visibile la loro ricerca, il loro scopo. Sono loro ad essersi allontanati troppo o è la società che non tiene più in alcun conto la ricerca, qualsiasi sia la sua forma?
E poi c’è Rocìo, l’intelligenza artificiale.
Al contrario l'intelligenza artificiale inizia una ricerca personale chiedendosi che cosa la differenzi dagli umani e, individuando questa differenza nel corpo, arriva - unica tra tutti - a considerare l'imprevisto come parte del gioco. Capisce la vita, ne valuta anche i lati inconsueti e inaspettati. Rocìo arriva alla considerazione che il corpo (e l'umano) non è un sistema intelligente e nonostante ciò e nonostante sia un “robot” è l'unica tra i quattro personaggi a considerare l'irrazionale, la casualità, il dubbio, l'imprevisto. Ecco, mi sembra che gli umani di questo racconto siano spaesati come la società che li rinnega che ha perso la capacità di giocare, di affrontare l'inconsueto: quello che Rocìo impara ad usare come chiave di interpretazione del mondo umano. Se vuoi si potrebbe dire che hanno perso la fantasia.