di Marcello Benfante
Giorni fa, una conversazione telefonica con un vecchio e carissimo amico ha solleticato la sfera ipersensibile, ma purtroppo infida, dei miei ricordi. Si è trattato di una reazione automatica agli stimoli della rimembranza.
La chiacchierata verteva ovviamente sull’attuale emergenza sanitaria, e quindi, ineluttabilmente, si agganciava al tema sempiterno della peste.
Tema letterario per eccellenza, che sempre richiama, per immediata necessità, Boccaccio, Manzoni, Camus.
Sorvolando su quest’ultimo (che in gioventù nei nostri serrati colloqui, spesso in forme di artificiose dispute retoriche, avremmo probabilmente messo al primo posto) e tralasciando il Decameron, nonché la brigata dei suoi epigoni, ci siamo entrambi concentrati invece sull’amore condiviso per i “Promessi sposi”.
Da giovani avremmo premesso alcune doverose “avvertenze” precauzionali a questa comune predilezione. Nella nostra tranquilla pre-senilità post-marxista non ne “avvertiamo” più il bisogno.
L’encomio del capolavoro manzoniano è ora carezzevole quanto scontato: un duetto armonioso e placido, intonato a una mutua e serena approvazione. In altri tempi, di giovanili e astratti furori, l’uno o l’altro avrebbe scelto la parte del bastian contrario e scatenato un dibattimento animosissimo.
Non ci è servito a molto, nei verdi anni ideologici, affilare le nostre virtù dialettiche, se non a disgustarcene irrimediabilmente e a rifuggire alla svelta dalle trappole sofistiche.
I nostri dialoghi sono ormai ben più paciosi e tolleranti. Se incappiamo in una controversia è soltanto a causa, quasi sempre, degli imbrogli e degli inciampi della memoria (che, purtroppo, si fanno più frequenti col passare degli anni).
Nel corso della discussione, mi sono mentalmente domandato quando ho letto per la prima volta interamente i “Promessi sposi”. Non certo alle scuole medie, dove ci si limitava per lo più a qualche cenno sulla trama e a qualche fervorino apologetico sul ruolo della Provvidenza. E nemmeno al liceo, dove la pratica più consueta consisteva nel tramortire gli studenti con brani antologici vivisezionati con impietosa acribia. All’Università, allora? Sì, mi pare di sì. Anzi, ricordo di sì. Certamente non prima. Né dopo, d’altronde. Dopo fu il tempo delle riletture, integrali o parziali.
Ma il mio amico mi ha detto giustamente che per noi “filosofi” (peraltro convertiti agli sbarazzi radicali della praxis) il programma di Italiano si fermava, a meno di non biennare la materia, al Seicento (e a metà della Divina Commedia).
Mi fa onore, se non altro, d’avere almeno intrapreso la lettura integrale dei “Promessi sposi” e della “Storia della colonna infame” per libera scelta, senza obblighi o stimoli scolastici o accademici.
Un po’ tardi, comunque. Nel corso di studi superiori piuttosto distratti da imperativi rivoluzionari, scavandosi una nicchia tra gli imperiosi volumi di Marx, il culto della poesia e la passione per i romanzi gialli. Cioè tra i venti e i ventiquattro anni. Abbastanza presto, in fondo, ma anche piuttosto tardi, rispetto ad altri, più vigili e pronti.
Tardissimo, se si considera quel che diceva Leonardo Sciascia, “lettore precoce e fortunato”, in “Goethe e Manzoni”, ossia d’averlo letto spontaneamente e liberamente “prima che me lo facessero leggere a scuola” (1).
Mi è già capitato di polemizzare, benché idealmente e bonariamente, con coloro che sostengono di aver aver letto i capolavori della letteratura mondiale alla stessa età in cui io divoravo i miei amati fumetti o le avventure salgariane. Con Harold Bloom, per esempio, che asseriva di aver letto “Moby Dick” alla tenera età di dieci anni (2). Tuttavia, riesco facilmente a immaginare un piccolo Sciascia, già precocemente savio, alle prese con le vicissitudini di Renzo e Lucia o, soprattutto, le pusillanimi astuzie di Don Abbondio.
Io invece, come appassionato consumatore di carta stampata, ho avuto un’infanzia e un’adolescenza più normali e felici, di cui mi sono divertito a dare una sintesi nel mio libretto “Autobibliografia del lettore da giovane” (3).
Ovviamente, il resoconto delle mie prime e fondamentali letture, o semplicemente dei miei timidi approcci a quei luminosi oggetti del desiderio che erano i libri della mia giovinezza, è per forza di cose lacunoso e approssimativo. E però io stesso non mi capacito di come abbia potuto dimenticare e quindi omettere inconsapevolmente, in quel piccolo saggio personalissimo, il ruolo propedeutico che ebbe su di me, fin da quando ero appena un ragazzino, un gran librone che sonnecchiava sornionamente tra gli scaffali di casa nostra.
Si trattava giustappunto de “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni “con aggiunta la Storia della colonna infame” edito a Milano dalla Casa editrice Sonzogno (probabilmente nel 1912) per i tipi dello Stabilimento Grafico Matarelli. Sulla copertina rigida di colore blu, spiccava un tondo dorato col busto di Manzoni in rilievo.
Libro sufficientemente mastodontico (900 pagine) e poco maneggevole da inibire ogni velleità di lettura infantile, ma anche non privo di attrattive seducenti, soprattutto per un ragazzo incline alle fascinazioni del disegno.
Mi riferisco alle doviziose illustrazioni del pittore e incisore torinese Francesco Gonin (1808-1889), che riccamente supportavano i fascicoli (si trattava di una pubblicazione periodica in 113 dispense rilegate) e in pratica consentivano perfino a un osservatore analfabeta o pigro di seguire il filo (e il sugo) della storia ricorrendo a un pizzico di fantasia.
Testo, illustrazioni e fregi ornativi erano inseriti in una sobria cornice doppia che conferiva al romanzo un’ordinata e armoniosa scansione.
Pur non osando leggerlo, in quanto inavvicinabile cosa destinata ai grandi e vietata ai piccoli, quei “Promessi sposi” trasposti e tradotti dalle precise e aggraziate figurine di Gonin erano ai miei occhi una sorta di proto-fumetto che alludeva (piuttosto staticamente, invero) a vicende certamente avvincenti: agguati, rapimenti, sommosse, duelli, guerre, carestie, epidemie, scorrerie di briganti armati come pirati e di barbari mercenari. E ancora: infide manovre di sbirri e manigoldi, tipi loschi appostati in malfamate taverne, bravi e megere, ladri e monatti, orridi castelli e putridi lazzaretti. Tutto un campionario esemplare di caratteri e situazioni, una fitta galleria di promettenti tipologie idonee a stuzzicare la fervida immaginazione di un giovane lettore.
Insomma, un gran romanzo avventuroso e fascinoso, che purtroppo la scuola (almeno nel mio caso) avrebbe debitamente massacrato, privilegiando i suoi aspetti lirici e descrittivi con una meccanica operazione di estrapolazione (laddove certe prose celeberrime, inserite nel loro contesto, collegate alla complessità versatile della trama romanzesca, hanno una funzione e un valore ben più vividi e potenti).
Ora, che i “Promessi sposi” fossero anche una magnifica e intricata vicenda di triboli e pericoli, di cospirazioni e macchinazioni, di soprusi e resistenze, di sottomissioni e ribellioni, io l’avevo intuito (per così dire, potenzialmente) da ragazzo, basandomi sulla mia esperienza di lettore paraletterario, uso a spaziare da Tex Willer a Sandokan, da Jacobs a Jules Verne, da Hugo Pratt a Sherlock Holmes.
Ma a ben vedere qualcosa di molto simile aveva in mente lo stesso Manzoni allorché nel 1840 audacemente “pensò di ristampare il romanzo con vignette come se quella lettura avesse bisogno di tali divertimenti”. Così almeno lamentava l’austero Niccolò Tommaseo. Ma l’operazione editoriale a cui pose mano, con moderni intenti, Manzoni (“e si fece venire da Parigi l’artista, e ci spese danari e tempo e cure non da lui”, commenta ancora Tommaseo) era tutt’altro che un semplice imbellettamento.
Ce lo ha spiegato bene Salvatore Silvano Nigro in un libro illuminante: “La funesta docilità” (4).
Commercialmente, per le tasche dell’autore, non fu certo un’iniziativa felice. Scrive Nigro: “Ci rimise gran parte del suo patrimonio. In compenso si concesse un’originalissima ristrutturazione testuale dell’opera. Si occupò dell’impaginazione tipografica. Decise la sceneggiatura illustrativa. Dettò le vignette ai disegnatori, e le corresse”.
Un gran lavoro, dunque, che rivela l’importanza notevolissima che Manzoni attribuiva a questa impresa complessiva di revisione e resa grafica del suo romanzo.
D’altronde, è risaputa l’attenzione e l’interesse che Manzoni riservò, fin dall’edizione del 1827, alla componente illustrativa, considerandola parte integrante del testo (5). In particolare è noto il suo plauso entusiasta per il lavoro di Gonin, “amirabil suo traduttore” in possesso dell’arte sopraffina “di tirar linee magiche”, come Manzoni scrisse proprio a Gonin il 2 febbraio 1840.
Da una lettera del 9 marzo 1885 di Francesco Gonin a Stefano Stampa apprendiamo che Manzoni scelse e stabilì tutti i soggetti delle illustrazioni della cosiddetta Quarantana, con metodica e scrupolosa applicazione: “dovendosi intercalare nel testo, ebbe la pazienza di calcolare quante righe occuperebbe quel tal disegno onde capitasse nella pagina dove c’era il fatto”.
Un accurato lavoro sul ritmo della narrazione, di puntuale sottolineatura episodica e visiva, che potremmo senza remore o accuse di sacrilegio ricondurre alla scansione delle strips o delle tavole a fumetti.
Spiega infatti Nigro: “Le vignette non sono siparietti distratti dal testo. Vennero inserite nella trama scritta, nella sintassi del racconto, come scrittura visiva messa a far collaborare parole e immagini in modo da arricchire e indirizzare la lettura con l’evidenziazione di sfumature, allusioni, particolari, correlazioni tra capitoli anche lontani”.
Si tratta insomma, come precisa ancora Nigro, di una “revisione linguistica delle pagine della redazione ventisettana” che spesso risulta efficacemente integrata e “sostenuta dalla resa figurativa del testo” in modo da facilitarne la comprensione presso un largo pubblico.
Una grande lezione di analisi letteraria e insieme di metodo pedagogico, di cui mi sono gioiosamente avvalso anche nel mio lavoro di insegnante, ricorrendo sempre alle esplicative illustrazioni di Gonin, tratte con difficoltose fotocopie dal mio vecchio e caro librone, per presentare ai ragazzi, specie a quelli più piccoli, la variegata materia di cui è ricco lo splendido capolavoro del Manzoni.
Note
1) Leonardo Sciascia, “Cruciverba”, Torino, Einaudi, 1983, pp. 97 e 98
2) Per esempio nel mio articolo “Non ho l'età - Esiste la Letteratura per Ragazzi?”, PalermoGrad 12 settembre 2018
3) Marcello Benfante, “Autobibliografia del lettore da giovane”, Bagheria, Plumelia, 2015
4) Salvatore Silvano Nigro, “La funesta docilità”, Palermo, Sellerio, 2018
5) Si veda al riguardo il puntuale e minuzioso lavoro di Paola Pallottino, “Di qual parlo e di qual taccio?” in “Storia dell’illustrazione italiana”, Bologna, Zanichelli, 1988; o il quasi identico “L’album di Don Abbondio” in “Dall’atlante delle immagini - Note di iconologia”, Nuoro, Ilisso Edizioni”, 1992