[Da oggi fino a venerdì comincia la nostra settimana dantesca. Quest'anno avremmo dovuto iniziare a festeggiare una giornata dedicata a Dante, il 25 marzo, ma le circostanze in cui tutti versiamo non lo consentono. Noi di TP24 vogliamo comunque creare uno spazio, seppur digitale, che ci permetta di rileggere insieme la Commedia e i suoi canti. Per scoprirli e riscoprirli: che sia un buon viatico, in questa selva oscura]
di Gianfranco Perriera
Smisurato orgoglio e insieme attestazione della propria estrema fragilità: possono forse andare a braccetto? O ci troveremmo dinnanzi al più irriducibile dei paradossi del mentitore? Beh, nella grande arte – quella che mentre dovrebbe ammutolirci nel tentativo di comprenderla, suscita contemporaneamente un inesauribile firmamento di pensieri, di emozioni e di interpretazioni – un tale connubio si dà. Intensissimo. Dante Alighieri in tutte le sue opere e nella Commedia in particolare, ne è la felicissima riprova.
Fattosi personaggio-pellegrino di un’ascesa a vertiginose altezze, dove lingua e pensiero si misurano (e ridiscutono) con l’intero scibile del tempo, dove l’andare si fa insieme meraviglia per e giudizio delle cose del mondo e dell’altromondo, il viandante si concede persino una discreta assoluzione (non l’inferno lo attenderà quando nei lidi dell’altrove tornerà dopo esser morto, ma la reprimenda di un soggiorno in Purgatorio). D’altro canto, il viaggiatore intraprende il cammino da una condizione di smarrimento e traviamento, nella quale da sé s’era cacciato, e dalla quale soltanto una benigna intercessione può trarlo fuori. E l’intercessione è una donna, Beatrice, enigmatico amore di una vita, il cui sorriso beatifica e chiama a esistenza più gentile e di cui Dante non s’è mai dimenticato. Anzi a tale memoria vivificante aveva giurato massimo impegno. “Io spero dicer di lei – aveva scritto nella Vita Nova – quello che mai non fue detto di alcuna”.
Promessa mantenuta. Promessa che apre un mondo, che creerà una lingua – l’italiano – e una concezione del cosmo e dell’esistere (con i suoi pregiudizi, ovviamente, ma con i suoi scarti dal già detto). Promessa che donerà all’opera (e ai suoi contenuti, dunque anche alla donna) la durata in tempi dall’autore nemmeno immaginabili. Opera che se condannava all’inferno numerosi personaggi, a distanza di secoli, come ci narra Primo Levi, avrebbe dato ai dannati dell’inferno di Auschwitz una risicatissima speranza di sfuggire alla ferocia. Opera che mentre non nascondeva il suo desiderio d’eterno, riconosceva, di tanto in tanto tra i suoi versi, con religiosissima umiltà, la transitorietà di ogni opera umana, per cui, nelle parole del miniatore Oderisi da Gubbio in Pg. XI “la vostra nominanza è color d’erba, che viene e va”.
Di certo, però, se si è sospinti da Amore si diventa loquaci, sognatori e, tutto sommato, profetici. “Amor che nella mente mi ragiona”, intona il musico Casella in Pg. II. Sono i versi di una delle canzoni di Dante che il compositore amico intona sì dolcemente che - aggiunge il poeta scindendosi dal sé personaggio – “la dolcezza ancor dentro mi risuona”. E’ questo il tenerissimo spirito di ogni arte e della scrittura in particolare? Trascendere i tempi in un’eco di dolcezza, quand’anche da penitenti e sofferenti venga il dire? E se ciò davvero avviene, può allora avvenire solamente tenendo insieme ragione e passione (l’amor che ragiona nella mente, insomma), Virgilio e Beatrice, la cornice che dà regole e struttura da una parte e l’inesausta passione della ricerca che fa avventurare, come Ulisse, oltre le colonne d’Ercole del già prestabilito. Si scrive e si pensa in risposta ad un’amorosa chiamata da una condizione di incertezza e di fragilità. E all’amorosa chiamata si dona la cura della propria penna, dando vita a fantasmi che sapranno d’eterno. Ci si metta alla prova in descrizioni, osservazioni, giudizi, interpretazioni che nel mettere in gioco la propria persona non smettano di interrogarsi sul senso e sulle mancanze del proprio tempo, di quello passato e di quello a venire.
Nel XXI canto del Purgatorio – George Steiner scriveva che il Purgatorio è “il posto naturale delle arti” – Dante e la sua guida Virgilio incontrano Stazio, il poeta della Tebaide. Questi, dopo aver detto di sé e aver spiegato, tra l’altro, come l’intero purgatorio sussulti quando un’anima, terminata l’espiazione, sale in paradiso, saputo che Virgilio è colui che si trova dinnanzi, gettandosi ai piedi dell’autore dell’Eneide che considera suo maestro e nel tentare invano di abbracciargli i piedi, pronuncia tali parole: “Or puoi la quantitate/ comprender de l’amor ch’a te mi scalda/ quand’io dismento nostra vanitate,/ trattando l’ombre come cosa salda”.
Proprio nel gioco di duplicazione - per cui Stazio replica l’omaggio che Dante aveva già fatto a Virgilio in qualità di maestro e che in sostanza è un’appassionata lode alla poesia - si concentra quasi la ragione metodologica della Commedia e della poesia tutta (dell’arte tutta, oserei dire). Cos’altro ha fatto, in effetti, Dante per tutte le cantiche, se non dare consistenza ai suoi fantasmi, se non trattare le ombre come cosa salda? Queste ombre, queste parvenze, che soltanto nella finzionalità della scrittura esistono, agiscono e sentono, cos’altro sono se non proiezione della varietà e complessità dell’universo mondo, delle strutture e delle tradizioni in cui gli umani vivono e di cui, almeno alcuni, intuiscono le falle e le possibili trasformazioni? Cosa sono se non il risultato dei giudizi, dei modi in cui lo scrittore li guarda, giudica e presenta, ma anche li approccia e li lascia parlare, insomma li inventa (nella duplice accezione di crearli e scoprirli)?
“Trattare le ombre come cose salde”, cercare spesso di toccarle, persino di abbracciarle e contemporaneamente vedersele comunque sfuggire è, probabilmente, la più generosa disposizione delle pratiche finzionali. In esse parliamo del e al mondo, a e di chi lo abita (ora, allora e fra mill’anni). Ma anche proviamo ad ascoltare: il mondo e chi lo abita. E se anche i libri giungono al punto finale, al dialogo non diamo mai definitiva conclusione.
Come la verità, in effetti, ha un fondamento scettico (è solo quando dubitiamo di qualcosa che a lei ricorriamo), così anche la creazione artistica e il pensiero si mettono in moto di fronte alla sfuggevolezza del mondo. Con felice intuizione Borges nei suoi Nove saggi danteschi individuava nel poema un sottofondo doloroso e malinconico. Era anche un poema d’abbandoni la Commedia. Virgilio scompariva sulla cima del purgatorio. E nei cieli del paradiso, Dante, improvvisamente, non si trovava più accanto Beatrice, ma un sene. La donna gli sorrideva un’ultima volta per poi fissare definitivamente lo sguardo nell’ “etterno”.
Del e dal mancare dunque si scrive. Del e dall’incertezza, anche dentro le più rassicuranti cornici teologiche. “La finitudine – ha scritto Vladimir Jankélévitch ne La morte – non è soltanto l’ipoteca che incombe sul divenire e lo rende più fragile, ma è anche il principio della feconda inquietudine che spinge lo spirito creatore a esprimersi attraverso la sua opera”. Di questa feconda inquietudine, il nostro pensare e il nostro sentire a Dante sono felicemente debitori.