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02/04/2020 06:00:00

La scuola al tempo della catastrofe

di Gianfranco Perriera

Operai della libertà: è la definizione e il compito che Alain Badiou nella sua fortunata traduzione/riscrittura della Repubblica di Platone, assegna a tutti i cittadini della città ideale. Sarebbe straordinario se davvero tale ruolo fosse preso in carica da tutti gli umani. Di certo questo dovrebbe essere il compito e la passione degli insegnanti. Specialmente di quelli che insegnano nella scuola dell’obbligo.

Operai: dà il senso della pazienza, della fatica, della cura meticolosa, del rigore, della necessità di non farsi trascinare da sogni che non si reggerebbero in piedi, della disponibilità a resistere alle intemperie, ma anche, perché no, della responsabilità di fermarsi se le condizioni poste dai datori di lavoro o dagli utenti si rivelassero vessatorie o improbabili.

Libertà: indica che la meta a cui si tende è sconfinata e concetto di trascendentale indefinibilità. Libertà è insieme sconfinamento e riconoscimento di un limite. Essa comprende non soltanto la conoscenza e la responsabilità (in molti casi anche il rispetto) nei riguardi di ciò da cui ci si libera, ma anche, secondo la definizione classica, il confine (nel senso etimologico del finire insieme) che pone la libertà dell’altro. Concetto, dunque, in cui brilla l’individualità di ciascuno e insieme ci si apre alla comunità (la più universale, ovviamente, quella a cui, probabilmente, già Kant faceva riferimento nella sua ipotesi di una pace perpetua): non si è liberi se tutti non lo siamo. Libertà, nome di irriducibile complessità, sfuggente e desiderata, che alla complessità di testi sapere dovrebbe guidare, non alla semplificazione o alla banalizzazione. Libertà che è abisso, da cui tante volte si vuole scappare, ma sempre irrisolta aspirazione. Libertà che chiama alla responsabilità. In particolare in questi tempi voraci e disillusi, tempi dissennati in cui, come scriveva Canetti, la responsabilità umana si esercita “senza oracoli che gliela alleggeriscano, senza un dio che lo muova di qua e di là, senza limiti al suo sapere, nell’assoluta certezza di incessanti e sempre più rapidi cambiamenti di tutto ciò che lo tocca!” (La Provincia dell’uomo).

Ora i tempi sono piombati nella tragedia. L’occidente, asserragliato nelle case, si trova, dopo aver cercato di rimuoverla, faccia a faccia con l’angoscia della morte. Si batte il petto, in buona parte con ragione, dei misfatti di cui s’è macchiata l’arroganza della tecnica, ma insieme dalla tecnica (un vaccino testato nei laboratori scientifici) attende ancora una nuova salvezza.

E gli insegnanti in tutto questo? Che ne è di quelli che dovrebbe essere operai della libertà? Che ne è di quello che dovrebbe essere il rigore del fare e la passione dello spirito? Consegnato, per necessità, alla macchina informatica, sperimenta senza appelli il disastro e le ingiustizie che il liberismo disinvolto e godereccio ha inflitto al mondo. La differenza di sapere e di potere economico tra gli allievi – e le loro famiglie – non trova più un posto dove celarsi. Chi era indietro – e già prima si vedeva benissimo – precipita ancora più in giù. Senza gli strumenti senza nemmeno il linguaggio (i linguaggi) per barcamenarsi fra quanto sopravvive della scuola.

Forse, in tale catastrofe, sembra far capolino quella che in termini metafisici – disciplina assai indigesta alle pratiche postmoderne – si potrebbe dire “la domanda intorno all’essenza della scuola”. Essenza che grosso modo potrebbe formularsi così: spezzare il pane della conoscenza, per tutti, in presenza, con il rigore dell’esempio, e, man mano che gli allievi crescono, rendere più complessi i contenuti e soprattutto lo sguardo con cui alla conoscenza (che è sempre insieme un contenuto e un modo di offrire i contenuti, di evidenziarli o ritagliarli, di mascherarli o smascherarli) ci si accosta.

Intanto obblighi e consigli si sprecano. Abbondano le contraddizioni: la didattica a distanza è un obbligo, no è volontario, comunque vi monitoriamo (termine da rabbrividire, ma questo si usa); mettete i compiti, non date troppi compiti; fate coraggio, non convinceteli che ne usciremo presto che poi magari escono loro di casa.

E in molte situazioni gli allievi non si sa neppure come raggiungerli. Regaleremo tablet. Ma in quanto tempo, come?

In questo putiferio, in cui le morti impediscono però il sorriso, torna alla memoria Il buffone dell’universo, un raccontino di Angelo Fiore, scrittore di lucida e defilata intelligenza. Padre Zanca, “nel fiore degli anni” e i cui studi godevano di incondizionati consensi - nell’ultimo “vi si coglie(va) persino il fremito del vino” – viene incaricato dalla Curia dell’insegnamento di religione in una scuola statale. E’ un incarico delicato, gli dice il Rettore. E’ una scuola importante, frequentata da figli di capizona e di deputati. Anche il discorso del preside della scuola in cui Zanca si è recato, si infarcisce di reboante retorica: “la democrazia trionfa dovunque. – cinguetta il preside – Questa è l’era della libertà. Libertà morale e sociale, di pensiero e di azione.[…] La vecchia disciplina si sgretola, l’onniscienza del professore ormai appare buffa”.Tutte parole condivisibili, ovviamente, se non fosse che il preside, pronunciandole, “mostrava i denti simili a zanne di lupo” e “negli occhi gli si accendeva uno sguardo sinistro”. Sta di fatto che dopo il discorso del reside e preso servizio, la creatività di Padre Zanca si isterilisce. “Attendeva a un saggio sull’opera dell’uomo; saggio che egli definiva umanistico e in cui voleva dimostrare che nell’opera umana si avverte la presenza della grazia”, ma la distrazione s’impadroniva di lui. La penna cincischiava sui fogli e lo guidava poi a tratteggi che si precisavano sempre più in qualcosa di osceno. Neanche la richiesta d’aiuto a un confessore porta qualche giovamento. Una fitta dolorosa di tanto in tanto tornava a visitarlo, ma chiuso nello studio su un foglio manoscritto tornava “a disegnare i festoni di pupazzetti, una giostra caricaturale”, che si precisava in scene “balorde e sconce”. Finché la verità che in lui premeva non gli si fece chiara. E al margine di un foglio che esaltava l’uomo, scrisse “è il buffone dell’universo”.

Detto, com’è ovvio, che ci sono diverse eccellenze e che la situazione non si è interamente alla deriva, l’insegnamento oggi, in Italia soprattutto, ma non soltanto, al sud, non è certo in smagliante salute. Stretta da un lato fra i miti contemporanei (fretta, arrivismo, gazzarra verbale, spensieratezza, attivismo, brutalità, culto del packaging e dell’immagine, di cui la parola è ridotta a mera e mal sopportata didascalia) e dagli squilibri sociali ed economici, dall’altro, che si fanno sempre più marcati, la scuola annaspa e, tra le lodi alla buona volontà e, più speso, le lamentele per la sua vacuità, rischia di ridursi a buffone se non dell’universo, almeno del sistema liberista. Non è questione da poco, ma per tornare operai della libertà bisogna non cedere alla dissipazione dei tempi e non smettere di smascherarne, con rigorosa delicatezza, i fronzoli rintronanti e mendaci.