Esce oggi in libreria Solo un giro di chiave, il nuovo libro di Nino De Vita, pubblicato da Il Palindromo. Un libro "anomalo" nella produzione del poeta marsalese, perché Solo un giro di chiave è un libro in prosa, un libro di ricordi, un libro su Marsala. Perché parlare dei suoi luoghi, per De Vita, significa inevitabilmente parlare di sé stesso, della sua vita e della sua poesia. TP24 ve ne offre un estratto.
di Nino De Vita
Per gli studi, per i miei viaggi, ero stato lontano e distratto dalle cose della mia città. Ora, da pochi giorni tornato dal servizio militare, il corso VAM, che avevo fatto a Viterbo, un amico dell’Ufficio Stampa mi invitava, una sera, ad assistere nel Palazzo VII Aprile a una seduta del Consiglio Comunale.
Ai tavoli trovai seduta una parte della città a me ancora sconosciuta.
Più di 40 uomini, in quell’aula rinchiusi, annoiati, agitati, affondati nelle loro poltrone.
Io, rimasto in piedi, in fondo, ascoltavo le loro parole, biascicate, confuse; o dal microfono, a voce alta, gridate.
Sono rimasto, lì, per quasi quattro ore.
I Consiglieri Comunali, nelle pause, entravano ed uscivano dall’aula, si soffermavano nel corridoio, dove pure io mi recavo, stavo frammezzo a loro.
A tu per tu si parlavano; sostavano a gruppi, dibattevano.
Mi sentii come all’Eremo di Zafer, ai “ritiri spirituali”: un dialogo fra ministri, politici, direttori di banche, descritti da Leonardo Sciascia in Todo Modo, il libro suo da poco uscito e che io avevo, a Viterbo, comprato e già letto.
Una lontana similitudine questa di Palazzo VII Aprile, si capisce: per il contesto, per il luogo.
«Sperti, proprio sperti siete» uno disse.
«Sapremo debitamente rispondere» uno disse a un altro.
E uno, afferrando e stringendo per il braccio quello che aveva dirimpetto: «Ora tu amico mio diventasti».
Uno, un assessore, durante il dibattito, spingendosi indietro con la poltrona allungò i piedi sopra il grande tavolo della presidenza, intrecciò le braccia sopra il petto.
Il Sindaco, che stava parlando, si fermò, si voltò a guardarlo.
Disse: «Che stai comodo, ah?».
«Comodo?» rispose l’assessore, risentito «e come posso stare comodo se ho la testa piena di pensieri, di preoccupazioni».
Il Sindaco riprese a parlare.
Di nuovo si fermò, si voltò a fissarlo.
«Non ci pensare» disse «riposati».
«Recitano. Stanno solo recitando» considerai.
Lo dissi: «È un teatro».
Aveva il Sindaco appena finito di parlare e uno si alzò. Smosse, aggiustò, sollevò e batté le carte sul tavolo. Acchiappò il microfono.
«Non è che siamo venuti qui a fare poesia…» cominciò. «Di cose serie stiamo discutendo».
Ce l’aveva con il Sindaco e con tutti, rimproverava tutti perché non era stata approvata la sua proposta sulla distribuzione dell’acqua nelle contrade.
«Cose importanti sono queste che vi dico» concluse, arrabbiato. «Se volete fare poesia, ripeto, fatela; ma io, qui, a perdere tempo non ci sto».
Me ne andai.
«Non ci sto neppure io» dissi, camminando lungo il corridoio vuoto.
Pensavo ai poeti che amavo, alle tante ore, al tempo, che io avevo a loro dedicato…
«Magari» rimuginavo, intanto che scendevo le scale, uscivo fuori, sboccavo nella Piazza della Matrice. «Magari ti accadesse di aprire il libro di un poeta e di leggerlo. Magari. Ma tu non lo farai…»
E così ragionavo, chiuso nella macchina, ed era notte avanzata, mentre dalla città tornavo a Cutusìo, nella mia casa, nella stanza con i libri.
Rimasi davanti allo scaffale.
Stavano allineati, uno vicino all’altro, nell’ordine alfabetico che io avevo voluto dare a loro.
D’un tratto mi accorsi che avevo lasciato la porta della stanza aperta e andai a chiuderla.
Non volevo che mia madre, avvertito il mio rientro, lo scatto della serratura che apre la porta, la porta che si chiude, venisse da me, si affacciasse a guardarmi.