di Lavinia Spalanca
Immaginiamo di dover comporre un fantasioso libro di tarocchi, e a ciascun emblema assegnare uno scrittore. Quale figura archetipica racchiuderebbe il destino di Nino De Vita? Non ho dubbi: la sua carta sarebbe l’equilibrista. E se cercassimo una prova, basterebbe sfogliare la sua ultima opera (Solo un giro di chiave, Il Palindromo, 2021) per immergerci nell’oscillante andatura ritmica della sua prosa, una scrittura costantemente in bilico, percorsa da un perenne senso di sospensione.
Ma in bilico fra che cosa? Fra lirismo e narratività anzitutto, senza che l’uno soppianti l’altra e viceversa, e così fra musicalità e sobrietà, intensità e affabulazione, allusività e chiarezza. E del resto, una continua dialettica informa la poetica dell’autore: oralità e scrittura convivono nella struttura del poemetto, che reca traccia delle secolari narrazioni di un’intera comunità, di cui De Vita si fa portavoce, così come il racconto in lingua – quello dell’esordio con Fosse Chiti (1984) – si alterna al dialetto, che alimenta con la sua espressività l’autobiografia in versi dell’autore.
Un dialetto che ritorna spesso, fra le pieghe dell’italiano, in questo suo recente esperimento metaletterario, all’insegna della riflessione sui processi e le pratiche di scrittura. Basti leggere questi lacerti iniziali: «Potevo con i versi esprimere quello che con la prosa avrei dovuto dire adoperando una intera pagina di scrittura»; «Io, scrittore di versi, non ho il respiro del prosatore, e al prosatore manca la possibilità di risolvere, di chiudere, dando un solo giro di chiave». Poesia e prosa, dunque. Ma anche dialetto e lingua. E se ci concentrassimo sulle forme letterarie, e sui significati che esse racchiudono? Ecco che ritorna l’eterno bilicarsi dell’autore, col ricordo d’infanzia che sfocia nella dichiarazione di poetica, o la meditazione in prosa – definita «una fuga dall’impegno quasi ossessivo con i versi» - che non accoglie digressioni consolatorie ma squaderna impietosa la condizione umana, fatta di solitudine, estraneità e sofferenza.
Due categorie ci soccorrono allora, nel tentativo sommario di definire questo recente libro dell’autore: la citata nozione di metaletterarietà e il ricorso al modello fiabesco, quest’ultimo modernamente inteso. In merito alla prima, Solo un giro di chiave non è che un ininterrotto omaggio alla letteratura, agli auctores che hanno scandito la formazione devitiana (Enzo Sellerio, Leonardo Sciascia, Ferdinando Scianna, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo… ), ma è soprattutto un ininterrotto discorso sul farsi stesso della letteratura, un’illustrazione della propria poetica, delle proprie scelte espressive a partire dall’opzione dialettale: «il dialetto, questa “mia” lingua, perché per me di una lingua si tratta».
Tutto, dunque, diventa letteratura: l’arrivo della luce a Cutusìo, quella «luci fracca, / picchiusedda alivoti» rievocata nella silloge del 2005 Nnòmura, che rischiara l’apprendistato letterario dell’autore; gli sforzi vani del padre di distoglierlo dagli amati libri, o di bruciarne i frammenti di versi incompiuti, gli scartafacci appallottolati nel cestino, quasi nel tentativo di esorcizzare l’estraneità al figlio. E non mancano gli omaggi ai libri degli altri - i freschi di stampa di Sellerio – così come agli strumenti dell’artista – l’inseparabile obiettivo fotografico di Scianna. Che cos’è invece il fiabesco per De Vita, e come si declina in questo suo libro? Il fiabesco si respira nella vena affabulatoria, nel passo cadenzato della prosa. «E qui, ancora, un’altra volta». «Ricomincia a dire». Si tratta insomma di una particolare modulazione della scrittura, ma anche di una prospettiva critica, di un modo di leggere la realtà, di racchiudere tutto in una storia. Ci sono squarci di vita che diventano esemplari, emblematici, a volte terribili, perché in ogni comportamento passa l’anima dei personaggi.
Il carattere è destino, la storia è destino. E quello del poeta è fatto di prove, ostacoli, compiti ardui da affrontare – a partire dalla nascita perigliosa - sino all’incontro profetico coi maestri, i compagni di strada, moderni ‘aiutanti’ nel cammino degli anni e delle lettere. Ad intessere questo viaggio iniziatico è una pronuncia che fonde la secchezza del dettato con le formule tipiche dell’oralità - «A Cutusìo la luce è arrivata io che avevo diciassette anni» - l’esattezza della prosa con l’andamento ritmico, garantito dall’anastrofe - «A distinguere non riuscivo i piccoli rumori: giungevano con pause lunghe, vicini» - inscrivendo la narrazione in un tempo altro, nel raro equilibrio fra un distonico presente e un passato affatto idealizzato, ma pur sempre volto a ricomporsi nel ricordo, spesso suggellato da cerimonie rituali. Come quando tre generazioni – nonni, figli e nipoti – si riuniscono a preparare la lianata, la pizza trapanese con l’origano. E tutto si chiude finalmente in circolo, con un solo giro di chiave:
Sugli scalini, seduti, al buio, sotto il pergolato, di fronte alla stanza del forno con le due mezze porte spalancate, vediamo mia madre e Giovanna che trafficano, sfornano le teglie; cominciano a tagliare a grossi riquadri la lianata. Godiamo del profumo, buono, stuzzicante, che giunge. «Attenta Francesca» dice mio padre, uscendo dalla stanza con il secchio di ferro pieno di carbonella viva. «Attento Alessandro. Bambini attenti che vi bruciate».