Tornare a vincere. È il titolo di un film che ho visto in questi giorni. Commovente, intenso, motivante.
Ma perchè sto parlando di un film ora?
Questo film mi ha dato dei bellissimi spunti di riflessione che ho davvero il piacere di condividere, perchè certamente riguardano, hanno riguardato tutti, almeno per un periodo della nostra vita.
Jack, un imponente Ben Afflec la cui intensa e maestosa interpretazione è la vera protagonista della pellicola, girata per la maggior parte in primi e primissimi piani che raccontano tutto il travaglio interiore ed esprimono a lettere cubitali tutto il non detto del personaggio, è un ex giocatore di basket, ma questo è il suo glorioso passato che viene svelato solo in seconda battuta dalla narrazione.
Jack oggi è operaio in un cantiere, ed è subito chiaro dal primo minuto che è un lavoro che svolge per anestetizzarsi, per portare il suo corpo allo sfinimento fisico in modo da far tacere la mente.
Ma Jack, per sicurezza e per necessità, ha anche un altro anestetico, che completa il compito: l’alcool. È una necessità talmente irrinunciabile, che fa della lattina di birra la sua compagna di doccia. Sul portasapone, lui, ha la birra.
Un’immagine potente e lampante, topica, che con un’inquadratura, ci racconta un mondo interiore dalla complessità per ora solo inconsciamente percepibile.
Jack ha una famiglia e una ex moglie che gli vogliono bene e si preoccupano per lui, ha due nipoti meravigliosi, ma ciò che deve mettere a tacere, non gli permette di sentire il loro amore: lo comprende, ma non lo sente, è quasi fastidiosa per lui, questa preoccupazione, che gli fa da ostacolo alla sua anestesia totale cui è ostinatamente votato.
Un giorno però arriva una chiamata, tra le tante di amici e parenti. L’unica a cui decide di rispondere.
È quell’àncora che l’universo ti cala giù quando hai ormai deciso di mollare tutto, di rinunciare a vivere, quando ormai ti sei deciso a, semplicemente, sopravvivere. È quella che ti manda quando ha deciso che ti ha testato abbastanza, quando è ormai certo che la tua prova ti ha portato fino al fondo.
È il reverendo dirigente della scuola superiore in cui giocava a basket, che, chiedendogli colloquio, gli stava offrendo il posto come coach della squadra.
Una squadra malmessa, che non vince nulla praticamente dai tempi in cui giocava Jack.
Jack rimane basito, tra i suoi pensieri si legge tutto il senso di inadeguatezza, la consapevolezza della sua condizione, perchè per quanto possiamo decidere di non sentire nulla e di raccontarcela, sappiamo benissimo cosa stiamo facendo realmente e dove ci troviamo emotivamente.
La macchina da presa dedica un’ampia scena, accurata, dettagliata, con una lente d’ingrandimento da entomologo, al momento del sabotaggio, in cui Jack prende in mano il telefono innumerevoli volte, ognuna accompagnata da una lattina di birra, presa con un gesto sempre uguale, ormai compulsivo, in un arrestabile fiume emotivo, per declinare l’incarico, con una “credibilissima” scusa, quella tipica che raccontiamo a noi stessi per primi e poi agli altri, del “sono molto occupato, non ho tempo”. È la classica scusa che abbiamo in tasca quando non abbiamo la più pallida idea di come, ma soprattutto del perchè sottrarci a qualcosa che potrebbe portarci in un posto felice, se solo avessimo il coraggio di metterci in gioco, di alzarci dalla panchina e iniziare a giocare, trovare il nostro ruolo e fare ciò che ci viene più naturale, assecondando le nostre inclinazioni, esprimendo i nostri talenti.
Jack infatti si dimostrerà essere un coach validissimo e indispensabile, capace di fare scelte giuste, coraggiose, di creare un equilibrio di spogliatoio prima inesistente, di creare da zero na ora squadra, senza nemmeno essere consapevole di saperlo fare, lo fa e basta. Gli esce dal cuore. Il basket era la cosa che gli riusciva meglio, era cresciuto sul parquet, tra i cesti, era la sua linfa vitale e ora che aveva ricominciato a scorrere, la sua vita aveva di nuovo un significato dopo tanto tempo (non importa quanto). Nonostante la vita sembrava averlo preso a schiaffi violentemente.
Per quasi tutto il film, Jack sembra avere avuto semplicemente una reazione esagerata alla fine del suo matrimonio, avvenuta un anno prima e la regia lascia assumere allo spettatore il punto di vista della sua famiglia, ce lo mostra come un bambinone incapace di reagire a quello che accade invece a tanti e a cui tanti reagiscono senza alcolizzarsi ai suoi livelli.
Ci mostra serate in cui perde completamente il controllo abbandonandosi a sbronze epiche da adolescente.
Finchè, a più di metà trama, non ci mostra la vera ragione del suo immenso, incolmabile, abissale dolore (che ovviamente non svelerò per non fare spoiler). Alza il velo sulla verità e all’istante tutti noi ci sentiamo Jack. Tutti noi abbiamo avuto un momento della vita in cui abbiamo disperatamente provato ad anestetizzarci per non sentire un dolore grande, per cui ci vuole tutto il coraggio del mondo per affrontarlo, un coraggio che sentiamo di non avere in quel momento di prostrazione ed estrema fragilità. Chi ci prova col cibo, chi con l’alcool, chi con le droghe, chi con i videogiochi, chi abbandonandosi alla depressione, chi con tutti insieme.
La verità è che gli anestetici non fanno altro che ancorarci a quel punto morto, rubandoci un sacco di tempo, un sacco di vita.
Il basket è una benedizione che arriva a salvarlo, il suo talento, la sua passione, lo salva. Solo lui può salvare se stesso. Il basket gli dà la possibilità di canalizzare la sua rabbia in qualcosa di costruttivo, che è l’unico modo per “usare” la rabbia e non lasciarci usare dalla rabbia, che, lo sappiamo tutti, è un’emozione potente e inestinguibile. L’unico modo è prendere quella rabbia contro se stessi e il mondo e lanciarla verso qualcosa che ci permette di utilizzarla come un dono, qualcosa che genera un successo dopo l’altro. Ma il successo più importante è del coach come persona, come esempio per quei ragazzi che ancora non hanno una direzione nella vita e che sono ancora pasta modellabile nelle mani degli adulti, e per se stesso, per la sua vita.
È stato infatti a causa del conflitto con suo padre che ha abbandonato il basket, per non dargliela vinta. “Mi infliggevo quanto più male possibile, per farne a lui” e solo nel momento in cui lo dice a voce alta, sotto gli occhi di uno dei suoi giocatori, che si rende conto, insieme a quel ragazzo, che anche lui parla con lo sguardo, di quanto questa logica sia stata stupida e fallimentare, anche se troppo spesso, l’unica a portata di mano, l’unica che siamo stati capaci di utilizzare, distruggendo quasi tutta la nostra vita.
Il suo più grande successo è risollevarsi, risorgere, decidere di iniziare una terapia, accettare una relazione di aiuto, scusarsi con sua moglie per essere stato assente, perso nel suo dolore. Il suo più grande successo è una improvvisa, sfolgorante, salvifica consapevolezza. All’improvviso, usciamo dalla caverna buia e ci appare improvvisamente chiaro, ciò che agli altri era chiaro da sempre.
È una magnifica storia interiore, in cui, nel corpo di Jack, parla la rabbia, e noi tutti la riconosciamo talmente bene, da poterla leggere nei suoi occhi, nei suoi gesti, nel suo linguaggio scurrile, nella sua grinta travolgente nello sport che ama e soprattutto nel suo silenzio.
È una storia che ci ricorda che non c’è male da cui non possiamo uscire e la strada per ricominciare parte da noi, dall’interno di noi più profondo, dalla nostra luce, anche se in quel momento ne è rimasto solo un piccolo barlume tremolante. Ha solo bisogno di essere rialimentata, non muore mai, è sempre lì, con noi, pronta a riaccendersi più scintillante e luminosa di prima, perchè un profondo dolore, ci lascia sempre una profonda nuova consapevolezza.