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14/12/2022 06:00:00

Depenalizzare la diffamazione, lo studio dell’Unesco sulla libertà di Stampa

 Nel mondo c’è meno libertà di espressione. Lo certifica uno studio dell’Unesco, che Ossigeno per l’Informazione ha tradotto in italiano e pubblicato lo scorso 9 dicembre,  Giornata internazionale contro la corruzione. Giornata, “celebrata” con lo scandalo delle tangenti (per carità, presunte) del Qatar a eurodeputati e funzionari del Parlamento europeo.

Neanche a dirlo, L’Italia è tra i paesi del mondo che hanno fatto dei passi indietro. Non a caso,  quest’anno, nella classifica mondiale sulla libertà di stampa, si trova al 58esimo posto, perdendo 17 posizioni  rispetto all’anno scorso. Certo, la Russia è al 155esimo e l’Ucraina al 106esimo, più “all’avanguardia” rispetto alla Cina, che rimane al 175esimo.

 

Secondo la ricerca Unesco, a limitare la libertà di stampa e di parola, e quindi il diritto all’informazione,  ci sarebbe prima di tutto “l’uso improprio del sistema giudiziario” attraverso le querele temerarie per diffamazione a mezzo stampa: le Slapp, acronimo di Strategic lawsuit against public participation, ovvero iniziative giuridiche contro la partecipazione alla vita pubblica. Ma Slapp, in inglese significa “schiaffi”, proprio come delle vere e proprie sberle date a chi pubblica notizie scomode. E’ diversa dalle altre querele, perché si basa sulla disparità di potere, in cui si mostra al querelato il rischio di perdere tutti i suoi beni, costringendolo ad un lungo percorso processuale, dove la verità dei fatti alla fine diventa una cosa secondaria.

Sono le cosiddette querele temerarie, che in Italia superano le cinquemila all’anno. E rappresentano articolate intimidazioni, fatte di processi infiniti e risarcimenti esagerati. Soldi che spesso i giornalisti e le redazioni non hanno e rischiano di fallire. Più il giornale è “piccolo”, più rischia di sparire in caso di condanne risarcitorie.

Ovviamente le intimidazioni “vecchio stampo”, fatte di minacce e ritorsioni di tipo violento, non sono scomparse. E a prescindere dallo “stile”, il risultato spesso è l’azzeramento delle voci critiche. Vuoi per eccesso di prudenza da parte del giornalista, vuoi perché le redazioni che non hanno le spalle molto coperte gli suggeriscono “moderazione”, le inchieste contro il potere tendono a ridimensionarsi.

 

La ricerca rileva una preoccupante tendenza nel mondo ad occuparsi sempre meno della depenalizzazione della diffamazione, ancora considerata un reato in 160 Stati (compreso il nostro). E con la scusa di garantire la ciber-sicurezza, combattere le fake news e il linguaggio d’odio, diversi Stati hanno tirato fuori nuove leggi che puniscono la diffamazione a mezzo stampa e l’ingiuria. Leggi che, dal 2016 a oggi, si sono moltiplicate in 44 Paesi. E in questo studio, l’Unesco ha contato 57 regolamenti nuovi o modificati che contengono, “un linguaggio eccessivamente vago o punizioni sproporzionate – ha spiegato Ossigeno - tali da mettere in pericolo la libertà di espressione online e dei media”.

 

Dieci anni di appelli per la depenalizzazione della diffamazione si sono però conclusi con un fallimento.

Nell’80% dei Paesi del mondo, la diffamazione è ancora regolata – aggiunge Ossigeno -principalmente dalla legge penale e in molti paesi i colpevoli sono passibili della pena detentiva”. Ricordiamolo sempre, Italia compresa, che in Europa è in compagnia di altre 14 nazioni.

Eppure, sottolinea l’Unesco, è sempre più condivisa l’idea che considerare la diffamazione a mezzo stampa come un reato abbia un “effetto raggelante” sulla libertà di informazione. E che il carcere sia una punizione assolutamente sproporzionata.

Ecco perché, tra le diverse raccomandazioni contenute nell’ultima parte dello studio, c’è quella di abrogare le leggi penali sulla diffamazione e di sostituirle con un’appropriata legislazione civile, allineata agli standard internazionali.

I rimedi, invece, “dovrebbero essere proporzionati, puntando a riparare il danno causato da certe espressioni piuttosto che a punire chi le ha fatte”. I tribunali poi dovrebbero dare priorità ai rimedi non pecuniari. E quelli pecuniari “dovrebbero tenere conto della capacità finanziaria dell’imputato (ad es. evitando il suo fallimento) e del fatto che sono stati adottati anche meccanismi volontari o di autoregolamentazione (ad es. scuse, rettifiche, repliche)”.

Tra le raccomandazioni dell’Unesco troviamo anche l’invito, nel contesto di cause legali per diffamazione, a rispettare il diritto dei giornalisti a non divulgare le proprie fonti. Tasto dolente, per il quale in Italia siamo ancora in alto mare.

 

Oggi, da noi, la principale legge sulla stampa che si occupa di diffamazione è ancora la 47 del 1948.

Ma il parlamento non sembra ancora pronto per il necessario ammodernamento giuridico.

 

Egidio Morici