Dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, si è tornati a parlare di nuovo, in molte testate, di Antonio D'Alì. Trapanese, parlamentare di Forza Italia, per un periodo anche sottosegretario agli Interni con Silvio Berlusconi premier, Antonio D'Alì è stato condannato a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa a fine 2022, dopo un lungo e tormentato processo, sulla carta un "abbreviato", durato circa undici anni, in cui D'Alì è stato assolto, poi condannato, infine condannato anche in Cassazione. Da qui la sua scelta di costituirsi in carcere, a Milano.
L'inchiesta su D'Alì è importante perchè racconta un certo modo di intendere il potere, a Trapani, le relazioni della politica con ambienti mafiosi, ed i suoi rapporti con la famiglia dei Messina Denaro, che erano campieri proprio nei vasti terreni di Contrada Zangara, a Castelvetrano, della famiglia D'Alì.
Il fatto che Messina Denaro sia stato catturato, in pratica, un mese dopo l'ingresso in carcere di D'Alì, alimenta tesi e retroscena, che non mancano mai quando si parla di mafia, dalle nostra parti. Così come si è tornato a parlare del processo, del suo ruolo nel trasferimento, ormai quasi venti anni fa, del Prefetto Fulvio Sodano.
In giro, però, c'è parecchia approssimazione, e si dicono molte cose inesatte, soprattutto in merito ad un processo dove la valutazione di alcune prove è stata davvero tormentata (ed ancora oggi suscita più di una perplessità). Ad esempio, non è vero che è provato che D'Alì abbia favorito la latitanza di Messina Denaro. O meglio, non è scritto da nessuna parte nella sentenza. D'Alì è stato condannato invece per aver favorito l'organizzazione criminale legata a Messina Denaro (appunto, il concorso esterno, non associazione mafiosa, nè favoreggiamento). Abbiamo pertanto deciso di vederci chiaro, e cerchiamo di spiegare esattamente di cosa è stato accusato D'Alì, sulla base di quali prove è stato condannato. Si tratta di una mole enorme di carte, documenti, udienze, testimoni. Non può essere mai un resoconto esaustivo, ma, a grandi linee, rende il quadro della vicenda.
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Analizziamo le motivazioni della sentenza di Appello del processo "abbreviato" (in realtà lungo dieci anni) che ha portato alla condanna di Antonio D'Alì, ex senatore trapanese di Forza Italia, a sei anni di carcere. Si è trattato di un processo non solo lungo, ma anche contorto, dove non tutto è stato chiaro (e di questo magari parleremo nei prossimi giorni). Atteniamoci, però, al momento a quanto contenuto nelle motivazioni.
Ricordiamo che il processo d'Appello bis era iniziato dopo l'annullamento con rinvio della Corte di Cassazione della precedente sentenza di assoluzione (con prescrizione per i fatti precedenti al 1994) .
Secondo i giudici D'Alì ha "certamente assunto degli impegni seri e concreti a favore dell'associazione mafiosa e ciò lo si può desumere dalla sua già stabile, affidabile, comprovata e ventennale disponibilità a spendersi in favore di Cosa nostra".
D'Alì, che e' stato anche sottosegretario all'Interno dal 2001 al 2005, secondo i giudici avrebbe "intrattenuto relazioni con l'associazione mafiosa", almeno, fino al 2006, agevolando la mafia di Matteo Messina Denaro: "D'Ali' ha concluso nel 2001 (dopo una invero gia' ventennale disponibilita' verso il sodalizio mafioso) un patto (l'ennesimo) politico/mafioso con Cosa nostra in forza del quale il sodalizio gli ha garantito l'appoggio elettorale che ha consentito all'imputato di essere nuovamente eletto al Senato (elezione che poi ha costituito da viatico per l'acquisizione dell'incarico di sottosegretario al ministero dell'Interno".
Ancora: "Non vi è prova di una condotta di desistenza dell’imputato incompatibile con la persistente disponibilità ad esercitare le proprie funzioni ed a spendere le proprie energie in favore del sodalizio mafioso”.
“D’Alì ha certamente assunto degli impegni seri e concreti a favore dell’associazione mafiosa e ciò lo si può desumere sia dalla sua già stabile, affidabile, comprovata e ventennale disponibilità a spendersi in favore di Cosa Nostra”, si legge nella sentenza.
Si arriva alla conclusione che “essendo cessato il reato nel 2006, esso non era prescritto quando in data 11 maggio 2012 è stato disposto il rito abbreviato (evento interruttivo della prescrizione), con la conseguenza che da quel momento iniziava a decorrere un ulteriore ventennale prescrizionale che non può ritenersi spirato al momento della presente decisione”.