Di autonomia differenziata abbiamo già parlato diffusamente, evidenziando ogni volta come questa sia portatrice di ulteriori significative differenze fra Nord e Sud nel nostro Paese.
Lo scorso 2 febbraio il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge recante disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario.
La Regione interessata accede a ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia attraverso un processo tutto sommato poco farraginoso che si conclude con l’approvazione di un disegno di legge con la maggioranza assoluta dei componenti di ogni Camera. L’attribuzione delle risorse corrispondenti alle funzioni oggetto di conferimento viene determinata da una Commissione paritetica Stato-regione, nel rispetto dell’equilibrio di bilancio, mentre il finanziamento delle funzioni attribuite avviene tramite compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali a livello regionale.
Sul piatto ci sono in ballo sia materie della legislazione concorrente sia di quella esclusiva, ad esempio, scuola, sanità, energia, beni culturali, ambiente ed ecosistema.
Quanto ai LEP, i livelli essenziali delle prestazioni, quei livelli minimi di servizio che dovrebbero quantomeno preservare il Paese dalla sua caduta libera, si stabilisce che:
· vengono determinati da parte della cabina di regia istituita dalla legge di bilancio 2023;
· senza la loro determinazione non si possono attribuire alle Regioni nuove funzioni relative ai “diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”;
· il loro finanziamento avviene sulla base dei relativi costi e fabbisogni standard.
Il punto centrale di tutta la questione è proprio definire i LEP, da garantire in tutta Italia. Difficili da individuare, difficili da identificare, specie in ambito sanitario. E che da soli non bastano ad appianare le disuguaglianze. Insomma, bene che vada l’attuazione dell’autonomia differenziata consoliderà la spaccatura del Paese.
Concedere alle Regioni maggiori autonomie in materia di “tutela della salute” aumenterà le diseguaglianze regionali e legittimerà normativamente il divario tra Nord e Sud rendendo la Sanità un patrimonio pubblico per i residenti nelle Regioni più ricche e un bene di consumo per quelle più povere. Il perché è presto detto. Innanzitutto, nonostante le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti (i Lea, Livelli essenziali di assistenza) siano definite dal 2001 e vengano monitorate ogni anno dallo Stato, persistono inaccettabili diseguaglianze tra i diversi sistemi sanitari regionali. In secondo luogo, le Regioni che hanno già sottoscritto i preaccordi (Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto) sono proprio quelle che erogano i migliori servizi sanitari e hanno maggiore capacità attrattiva sui pazienti del centro-sud, alimentando il fenomeno della “migrazione sanitaria”. Infine, le maggiori autonomie richieste dalle tre Regioni rischiano di sovvertire l’organizzazione dei servizi sanitari, ostacolando il monitoraggio del Ministero della Salute. In un momento di grave crisi della sanità pubblica, facendo accelerare chi già corre senza prima ridurre le distanze, si assesterà il colpo di grazia al Servizio Sanitario Nazionale, violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto.
Di questo abbiamo discusso con la Professoressa Elisa Cavasino, docente di Diritto Costituzionale dell’Università degli studi di Palermo. Ecco l’intervista