Nella settimana dell’anniversario della strage mafiosa di Via D’Amelio, un po’ tutta la destra che conta è stata in Sicilia, per una fiaccolata, un convegno, una tavola rotonda, e ricordare l’impegno del governo Meloni e dei partiti del centrodestra contro la mafia.
Ognuno ha fatto in modo di farsi notare. Chi prendendo un impegno solenne (Giorgia Meloni: «Io non scappo mai»), chi attaccando briga (Giovanni Donzelli: «Noi difendiamo il 41bis, mentre i Cinquestelle hanno scarcerato i mafiosi»), chi giocando a chi è più puro (Nello Musumeci: «C’è anche la mafia dell’antimafia»).
Nella pattuglia di governo c’era anche Andrea Delmastro Delle Vedove. Sottosegretario alla Giustizia, messo da Giorgia Meloni – alla quale è legatissimo: era fino a pochi mesi fa il suo avvocato – per marcare a uomo il ministro Carlo Nordio – dicono i bene informati su ciò che accade a palazzo. Delmastro è stato, con Donzelli, uno dei politici più esposti in questa prima fase del governo Meloni. Per le polemiche sul 41bis e il caso Cospito si ritrova un’imputazione coatta per rivelazioni di segreto d’ufficio e per lo stress ha avuto pure un’ischemia cerebrale.
Adesso Dalmastro deve affrontare contrasti ancora più duri, sulla riforma della giustizia, sulle recenti dichiarazioni di Nordio sul concorso esterno in associazione mafiosa. Ma non si sottrae alle polemiche.
Ho avuto così modo di confrontarmi con Delmastro in una tavola rotonda sulla riforma della giustizia. A Trapani, al tramonto, al caldo. Io ero tutto carico di cattive intenzioni: il bavaglio ai giornalisti sulle intercettazioni, la perdita di tensione sulla lotta alla mafia. E invece Delmastro mi ha rassicurato. Sono arrivato da lui, in pratica, un po’ ignorante, un po’ in malafede. Me ne sono andato carico di nuove sicurezze.
Innanzitutto questa riforma della giustizia non parte con un desiderio di vendetta, o di resa dei conti, nei confronti dei giornalisti o dei magistrati, no. Vuole, semplicemente, dare più garanzie agli imputati e agli indagati. Ad esempio, abolendo dalle condizioni necessarie per avere un’ordinanza di custodia cautelare la reiterazione del reato. Se hai già fatto un reato, mi spiega Delmastro, a cosa serve arrestarti per il rischio che tu lo ripeta?
Poi non è vero che si minano le intercettazioni. Per il sottosegretario sono «strumenti straordinari». Bisogna però tutelare la privacy, rispetto alla possibilità di finire nel tritacarne dei giornali. Le intercettazioni saranno note solo se depositate dal giudice, e non ci potranno essere riferimenti a terze persone non indagate «a meno che non siano rilevanti». La sensazione, spiego a Delmastro, è che come già avvenuto con la riforma Cartabia, i giornalisti vip che vanno a braccetto con questo o quel pm avranno sempre accesso a informazioni riservate, infischiandosene dei divieti di legge, mentre i poveri cristi come me vedranno ancora più complicata la loro vita. Delmastro però mi ha detto che non è così, perché non si dà più in pasto ai giornalisti la privacy dei cittadini, poi tutto rimarrà come prima, «ma è l’ora di interrompere il corto circuito giudici-mass media».
Qui c’è un equivoco, spiego al sottosegretario. Quando si parla di rapporto giornalismo e giustizia si ha sempre davanti l’idea di un modello di giornalismo molto «inquirente», di tipo accusatorio, diciamo, da «tintinnar di manette». Gli esempi sono noti. Ma un giornalista, se segue un’inchiesta o una vicenda giudiziaria, sin dalle prime fasi, lo fa per raccontare una storia, non per fare il tifo, e magari porta elementi a difesa dell’indagato o dell’imputato, scopre i difetti di un’indagine sbagliata. A me è capitato in diverse occasioni, ed è una bella responsabilità, dire ad una Procura «mi sa che state sbagliando». E l’ho potuto fare avendo accesso a fonti e carte che questa riforma sembra pregiudicarmi. Sembra, però. Perché lui, Dalmastro, dice che potrò farlo. Solamente dopo, però. Quando tutto è depositato.
Io vorrei insistere, ma lui è più in forma di me, non soffre il caldo come il sottoscritto. «Basta con il mercimonio di atti coperti da segreto di indagine», tuona il meloniano. E lo fa proprio nel giorno in cui, nella provincia nella quale parla con me, Trapani, un consigliere comunale di Fratelli d’Italia è stato arrestato perché voleva vendere a Fabrizio Corona dei file sulla cattura di Matteo Messina Denaro, coperti appunto da segreto. Che dire, vuol dire che i giornalisti hanno fatto scuola, magari in questo.
Comunque Delmastro tende a rassicurarmi. Anche sulle frasi di Nordio sul concorso esterno. È stato equivocato, dice. E prende impegni solenni: «Nessuno strumento della lotta alla mafia», «difenderemo il 41bis, che – dice proprio così – l’Europa ci invidia». Ancora: «Potenzieremo il sequestro e la confisca dei beni». Usa espressioni forti. Nel mio taccuino segno: «Durezza estrema», «pugno di ferro», «i mafiosi devono avere paura». Glissa sull’abuso d’ufficio. Insiste sulla parità processuale tra le parti: «Il pm non può essere un collega del giudice».
Annuncia ottantaquattro milioni di euro per la costruzione di nuovi padiglioni nelle carceri italiane, ed esalta – avendo lui proprio la delega – il lavoro della polizia penitenziaria, «sempre corretta, nonostante il compito difficile da svolgere». Qui lo interrompo: «Quasi sempre corretta», lo correggo. Quasi. Ma anche lì Delmastro capisce al volo le mie preoccupazioni e mi rassicura. Il mio «quasi» si riferisce ai fatti di Santa Maria Capua Vetere, una delle storie più buie e tristi della recente vita democratica del nostro Paese. I fatti sono questi, per come li conosco: il 6 aprile 2020, nel carcere «Francesco Uccella», duecentottantatré poliziotti penitenziari entrarono e massacrarono di botte i detenuti inermi.
Attualmente è in corso il processo a carico di centocinque persone accusate di tortura pluriaggravata, lesioni, falso, calunnia. In settantasette sono stati sospesi dal servizio.
Delmastro mi spiega che non è andata così. Anche se io sono fresco di lettura della bella inchiesta «Pestaggio di Stato», di Nello Trocchia, il giornalista che ha scoperto e raccontato quello che è accaduto. Ma lui, il sottosegretario, mi dice che non conta. Ma ci sono anche i video, ribatto io, come un ingenuotto qualsiasi che di fronte agli scettici dice: «L’ho visto su YouTube». Video impressionanti, immagini divenute tristemente famose. E lui: «Aspetterei di vedere i filmati completi». Ma ci sono le inchieste giornalistiche, cerco di insistere. E lui, ancora: «Aspetterei di vedere come finisce il processo».
Insomma, io credevo che dei detenuti inermi fossero stati picchiati senza motivo da degli agenti di polizia penitenziaria. Lui mi spiega che non è così, che bisogna aspettare, e mi fa sentire un po’ come nella storiella dello stolto che guarda il dito e non la luna. Perché la verità è un’altra: «Nel marzo del 2020 – mi spiega con sarcasmo – in piena emergenza Covid, a tutti gli italiani fu detto di stare a casa, e di isolarsi. Stranamente, però, nelle carceri italiane, i detenuti invece volevano uscire. Cominciarono proteste eterodirette dalla criminalità organizzata con decine di milioni di euro di danni alle strutture penitenziarie». Ho deluso Delmastro: «Mi meraviglio che i giornalisti parlino del singolo episodio di Santa Maria Capua Vetere, anziché di questo. Parlate sempre di mafia, volete il pugno duro contro la mafia, poi quando spunta la criminalità organizzata diventate garantisti, e cominciate a dire: nessuno tocchi Caino. Bene, io dico: nessuno tocchi Abele».
Siamo seduti davanti a un tramonto eccezionale, con un caldo eccezionale, e sono eccezionali anche le parole di questo sottosegretario, che aggiunge: «La polizia penitenziaria poteva reprimere le rivolte con la sola Costituzione? Per parafrasare un celebre proverbio: se un detenuto con il pentolino con l’olio bollente incontra un poliziotto con la Costituzione, il poliziotto è un uomo morto». Ed insomma, spiega Delmastro mentre io mi rintano come gli ultimi raggi del sole mediterraneo, la polizia penitenziaria è stata incaricata di rimettere ordine tra i detenuti in rivolta, ma alcuni hanno preferito sollevare il «cinema» (dice proprio così) di Santa Maria Capua Vetere, che è un fatto oggettivamente imbarazzante. «Se è accertato è gravissimo, senza ombra di dubbio, ma non è la spia di un disagio più grande. Prima di giudicare, aspettiamo di sapere la realtà dei fatti».
Ecco: prima di giudicare, aspettiamo di sapere la realtà dei fatti. Sembra il manifesto per una riforma della giustizia stringata ma rivoluzionaria, quella che tutti vorremmo davvero, diavolo di un Delmastro. Prima di giudicare, aspettiamo di sapere come sono andate le cose.
Peccato che lo stesso Delmastro, ancora prima di sapere i fatti, già a giugno 2020, sollecitava al governo di allora un «encomio solenne al corpo di polizia penitenziaria in servizio presso l’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere che, in operazione di particolare rischio, ha dimostrato di possedere, complessivamente, spiccate qualità professionali e non comune determinazione operativa». Non sapeva i fatti, e aveva già giudicato. Si vede che nella sua riforma della giustizia, questa regola allora non vale proprio per tutti.
Giacomo Di Girolamo