“Mi sta finendo l’acqua del pozzo” dice mio padre. Da 6 mesi utilizza i nove metri cubi di acqua caricati dall’autobotte.
L’uso dell’autobotte oggi costa caro. Il prezzo è arrivato a 60 euro, solo due anni fa ne valeva 15. Allo stesso modo le valvole di ritegno per il pescaggio dell’acqua dai pozzi: da 4 sono passate a 8 euro. E’ la legge del mercato. Ma l’assurdo è che in Sicilia l’acqua c’è.
“Qui 150.000 mila anni fa c’era l’acqua” mi mostra con scoramento il blocco di tufo e il fossile incastonato di una peptinide. L’acqua in contrada Fontanelle c’è sempre stata. “Qui sopra una volta era tutto mare”.
“Ca più autu arrivi chiù acqua trovi” mi dice un contadino che incontro a Paolini. “Da Bufalata a Matarocco niaci semo chini r’acqua. Il problema sempre chiddu è: a distribbbuzione”.
“Ma io dico è possibile che ogni giorno debba vedere litri d’acqua scendere dalla galleria appena costruita? Un pittusu quando ci costa a’ttappallo?” gli controreplica mastro Pietro.
Secondo i dati ISTAT in Sicilia ogni anno viene perso il 51,6% d’acqua. Nella Sicilia orientale si è toccato il 60%. Nell’anno 2024 sono 414 i mm cumulati solo +1 mm rispetto alla grande siccità del 2022.
Ci sono 267 milioni di metri cubi trattenuti dagli invasi regionali ma solo 122 milioni quelli utilizzabili, cioè il 38, 21% del volume disponibile autorizzato. Su 29 bacini totali: 6 non hanno più acqua utilizzabile, 6 meno di 1 milioni di metri cubi, 4 meno di 2 milioni di metri cubi. Nel comprensorio di Gela è già iniziato lo stop alle irrigazioni e l’acqua viene razionata nelle province di Palermo, Caltanissetta, Ragusa e Messina. E poi le dighe, che oggi sono contese da tutti tra uso irriguo e potabile.
L’acqua c’è. Ma il 51% di acqua che non c’è in Sicilia, si perde per “un pittuso”.
Questa frase mi rimbomba in testa.
Guardo l’orto al crepuscolo che è un cimitero di foglie accartocciate e di peperoni precocemente caduti. E quando cammino in questa terra matta rosso ferro, mi sento un pò come un fanciullo sulla spiaggia che si diverte nel trovare qua e là una pietra più liscia delle altre o una conchiglia più graziosa, mentre il grande oceano delle verità giace del tutto inesplorata davanti a me.
Ma se l’inconscio spera nel cielo, la sua parte razionale snocciola dati e circostanze.
La Regione dice che per gli interventi di emergenza ci sono 20 milioni assegnati dallo Stato per la dichiarazione di emergenza a cui vanno aggiunti altri 38 milioni del bilancio regionale. A valere sul Fondo per lo Sviluppo e la Coesione (FSC) ci sono altri 90 milioni per il revamping di tre dissalatori. Per gli interventi di messa in sicurezza delle dighe sono previsti 300 milioni per le reti idropotabili. E poi i Fondi Europei per lo Sviluppo Regionale (FESR) a cui sono destinati oltre 70 milioni per interventi di rinnovo delle infrastrutture idriche per il recupero delle perdite e la realizzazione di dissalatori nelle piccole isole. Sono poi previsti oltre 60 milioni da destinare al recupero dei volumi di invaso nei serbatori artificiali della regione e l’interconnessione tra i bacini idrografici, al riuso dei reflui depurati.
Guardo il nostro orto disseccare come fosse la scena apocalittica del film Interstellar. Sempre più polvere. E nella polvere ciascuno si arrangia come può mentre la memoria dei contadini va ad un altra siccità rimasta nell’epica quella del 1990.
Li ascolto e ripenso a Danilo Dolci, il sociologo poeta attivista della non-violenza, ricordato di recente nel centenario della nascita (28 giugno 1924): la sua battaglia a Partinico contro la fame, il potere mafioso, l’analfabetismo, la disoccupazione. E la siccità.
«È sempre un’azione educativa, quella che crea forze nuove e porta al cambiamento», diceva Dolci. L’esempio più significativo è quello della diga sul fiume Jato. Raccontava Dolci che un giorno un certo zu Natale Russo, un bracciante, gli disse: «Qui durante i sei mesi dell’estate non piove mai e la terra arida produce poco o niente; ma d’inverno piove molto e tutta l’acqua va sprecata nel mare. Si dovrebbe fare un “bacile”». Quel contadino probabilmente non aveva mai visto una diga, ma aveva in mente una vasca che raccogliesse l’acqua dell’inverno per utilizzarla nelle campagne d’estate. Il giorno dopo Dolci venne a sapere da un professore di agraria che in Sicilia piovevano cinque miliardi di metri cubi d’acqua all’anno, «esattamente il doppio dell’acqua necessaria a tutta l’isola». Non so quanto fossero attendibili quei numeri che risalgono agli anni 50, non so se siano confrontabili con quelli attuali.
Fatto sta che Dolci raccolse attorno a sé uomini e donne che «volevano l’acqua», con loro immaginò una soluzione per ovviare al monopolio idrico con cui la mafia si imponeva sui contadini a caro prezzo. Tradurre l’utopia in progetto era la strategia di Dolci, coinvolgendo la popolazione, sollecitandola a «svegliarsi» e a riconoscere i propri bisogni, animando dei laboratori collettivi di confronto: «Non mi domando se è facile o difficile, ma se è necessario o no».
Anni di lotte, di scioperi, di digiuni e di mobilitazioni popolari, di battaglie per richiamare l’attenzione delle istituzioni locali e della politica nazionale, per ottenere i contributi della Cassa del Mezzogiorno portarono nel 1963 alla costruzione di un lago artificiale grazie al quale il prezzo dell’acqua venne abbattuto, la zona occidentale della Sicilia ebbe uno sviluppo economico e civile, nacquero numerose aziende e cooperative. Ora, la siccità è la stessa dei primi anni 50 e Danilo Dolci è morto con le sue utopie nel 1997.
Il problema in Sicilia non è la mancanza d’acqua, ma la mancanza di utopia.
Oggi in Sicilia manca l’utopia perché la gente preferisce fare i festival sotto gli acquedotti vuoti piuttosto che occuparli, di fottere l’acqua al vicino di casa, piuttosto che condividerla come facevano gli arabi con le gebbie.
Perché qui in Sicilia si convive con tutto e il suo contrario. La retorica del terzomondismo e la ricchezza dell’autonomia speciale, l’overturism di San Vito Lo Capo e la povertà di Bonagia. Siamo maschere beffarde, sarcastiche e salaci che si adattano ai tempi che cambiano facendo permanere come per un incantesimo voluto dagli dei dell’indolenza, le sue visioni miopi.
Adattamento, ignavia, invidia, sfacciataggine, apparenza, sono gli ingredienti principali del nostro pane quotidiano e, a ben guardare, il siciliano, da personaggio dai contorni mitologici, metà uomo e metà fondamenta di cemento, si è trasformato in qualcosa di nuovo e insieme di eterno: un ossimoro.
Guardo questi contadini. Sono tutte maschere funeree. Risi sardonici contro la morte. Di conversazioni spremute. Una nastro di Moebius dove passato, presente e futuro s’intrecciano in un’ unica dimensione. Penso e ripenso a Danilo Dolci, al borgo di Dio, al Porto di Dio, e bestemmio, bestemmio. Ma oggi l’ufficio comunale è chiuso per ferie. Meglio guardare “il tramonto sulle isole Egadi dall’alto”.
Bagno le piante di pomodoro, di cavolo, di melanzane e peperoni e torno a casa dando voce ai sospetti e ai bei tempi andati. Come scoria di un’isola decadente. Che non è più. Che non sarà mai.
Giuseppe Passalcqua