All’estero, quasi certamente in Svizzera, esisterebbe ancora la collezione di famiglia. Un giorno, forse per rimpinguarla, il figlio Matteo aveva perfino ordinato di rubare, ovviamente a mano armata, il Satiro danzante: magnifico bronzo a grandezza naturale e rara opera greca, rimasto impigliato, a marzo 1998, tra le reti del peschereccio Capitan Ciccio, nel mare siciliano di Mazara del Vallo. Era già stat
o studiato un piano; si erano compiuti i sopralluoghi; chi doveva attuarlo possedeva ogni mezzo per condurlo in porto: solo un banale contrattempo ne ha impedito la realizzazione. Agli atti del processo contro Gianfranco Becchina (uno dei maggiori “predatori dell’arte perduta”, il gruppo di tombaroli e mercanti che, dal 1970, ha sottratto almeno un milione di reperti al sottosuolo del nostro Paese), la cui udienza preliminare si sta svolgendo davanti al Gup Guglielmo Muntoni, tutto è spiegato per filo e per segno; e Il Messaggero è in grado di documentare, per la prima volta, questa incredibile vicenda.
Incaricato della cosa è Concetto Mariano, un “pentito” che faceva parte della “famiglia” di Messina Denaro: proteggeva la latitanza dei fratelli Giacomo e Tommaso Amato (come lui di Marsala, e ormai condannati all’ergastolo); e quando nel 1998 Matteo, già latitante, viene in visita in loco, «una ventina di noi eravamo mobilitati per controllare la zona». Mariano riceve l’ordine dagli Amato e da un tal Gangitano, morto 10 anni fa. «Eravamo in cinque o sei, di Marsala»; a Mazara, gli danno una casa per dormire. Il Pm Paolo Ferri, con i carabinieri del Comando per la Tutela del patrimonio artistico, verbalizza che «il Satiro era ancora imballato e non restaurato: in un locale davanti al Comune, piantonato da due vigili». Loro, si spostavano con dei motorini; erano in possesso di armi, e, per il trasporto del Satiro, «di un Ducato con portellone laterale». Il bronzo era «destinato a Matteo Messina Denaro»; dopo averlo portato via, sarebbe stato sotterrato: una buca era già pronta; «quindi, portato in Svizzera». Qui, la faccenda diventa più fumosa: non si capisce bene se era per Messina Denaro, o per un’altra collezione; «dicevano che il valore era immenso, e a noi avevano promesso due o trecento milioni». «Appostamenti, e ripetuti sopralluoghi». Una sera, seguono uno dei vigili, che esce per acquistare una pizza; al ritorno, quando sta per essere preso ed obbligato a far entrare i rapinatori, «improvvisamente è arrivata gente, e abbiamo desistito». Poi, il Satiro sparisce: portato via per il restauro. Non se n’è fatto più nulla: il piano è caduto, anche perché i due “committenti” sono stati arrestati ed il terzo, il Gangitano, è morto alla fine del medesimo 1998.
Però, non era la prima volta in cui si parlava, e trattava, d’arte: d’archeologia rubata o clandestina. Giovanni Brusca (detto «lo scannacristiani» per la sua ferocia: colui che scioglie nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo e aziona il telecomando della strage di Capaci, l’assassino del giudice Giovanni Falcone, della moglie e della scorta; egli pure “pentito”), racconta, a proposito di Matteo Messina Denaro, di «un’anfora d’oro da un miliardo e mezzo di lire che stava in Svizzera» e «sculture antiche di cani senza la testa». E un altro pentito di rango, Angelo Siino, spiega: «Francesco Messina Denaro, padre di Matteo, era un bidello; la sua carriera comincia come “tombarolo”: aveva trovato in un fondo tantissimi reperti». Francesco Geraci, che era nel “giro” e possedeva una gioielleria frequentata da Brusca e Totò Riina, ricorda anche il periodo degli attentati contro gli Uffizi, e a Roma, San Giorgio al Velabro e il Laterano: «Abbiamo iniziato a pedinare Maurizio Costanzo; ma prima, a casa mia, Matteo mi ha riferito degli attentati a strutture monumentali. Mi hanno detto che lo sapevano solo in pochi: un piccolo gruppo di “Cosa nostra”; ricordo che si parlava di far saltare anche la Cappella Sistina». Ma la cosa s’era rivelata, evidentemente, troppo complicata. E’ la stagione della “trattativa”, non ancora chiarita, tra l’“onorata società” e spezzoni dello Stato: una posta tanto rilevante fa anche dimenticare l’amore per l’arte, vero?
Di Messina Denaro jr., il processo Becchina svela alcuni dettagli: già latitante, soggiorna comodamente in Svizzera. E uno dei suoi, Giuseppe Fontana ormai condannato, viene arrestato alla frontiera con reperti archeologici di frodo; ma in un’altra occasione, bloccato dalla polizia elvetica a Basilea, dove Becchina possedeva negozio e tre magazzini di archeologia illegittima che gli sono stati sequestrati con un possente archivio di documenti e fatture: aveva con sé una lista dattiloscritta, con i prezzi di una serie d’armi da guerra (anche un Kalashnikov); un preventivo pari alla somma di cui è stato trovato in possesso e che aveva già cambiato in franchi svizzeri; e, per finire, s’era anche già recato a far visita ad un negozio d’armi in città.
Nessuno degli interrogati, tuttavia, ammette di sapere qualcosa della Natività di Caravaggio: un capolavoro alto due metri e rubato nel 1969 dalla chiesa di San Lorenzo, a Palermo, certamente dalla mafia. Alcuni dicono che la tela sia andata distrutta; altri, invece, che esista ancora; i “carabinieri dell’arte” ne sono convinti, e il Caravaggio resta ancora, per loro, il “ricercato numero uno”. Il Pm Paolo Giorgio Ferri sta per andare in pensione: «Peccato, perché mi sarebbe tanto piaciuto riuscire a trovarlo».