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18/06/2009 20:01:17

Anche il Satiro Danzante nel mirino della mafia


All’estero, quasi certamente in Svizzera, esisterebbe ancora la collezione di famiglia. Un giorno, forse per rimpinguarla, il figlio Matteo aveva perfino ordinato di rubare, ovviamente a mano armata, il Satiro danzante: magnifico bronzo a grandezza naturale e rara opera greca, rimasto impigliato, a marzo 1998, tra le reti del peschereccio Capitan Ciccio, nel mare siciliano di Mazara del Vallo. Era già stato studiato un piano; si erano compiuti i sopralluoghi; chi doveva attuarlo possedeva ogni mezzo per condurlo in porto: solo un banale contrattempo ne ha impedito la realizzazione. Agli atti del processo contro Gianfranco Becchina (uno dei maggiori “predatori dell’arte perduta”, il gruppo di tombaroli e mercanti che, dal 1970, ha sottratto almeno un milione di reperti al sottosuolo del nostro Paese), la cui udienza preliminare si sta svolgendo davanti al Gup Guglielmo Muntoni, tutto è spiegato per filo e per segno; e Il Messaggero è in grado di documentare, per la prima volta, questa incredibile vicenda.

Incaricato della cosa è Concetto Mariano, un “pentito” che faceva parte della “famiglia” di Messina Denaro: proteggeva la latitanza dei fratelli Giacomo e Tommaso Amato (come lui di Marsala, e ormai condannati all’ergastolo); e quando nel 1998 Matteo, già latitante, viene in visita in loco, «una ventina di noi eravamo mobilitati per controllare la zona». Mariano riceve l’ordine dagli Amato e da un tal Gangitano, morto 10 anni fa. «Eravamo in cinque o sei, di Marsala»; a Mazara, gli danno una casa per dormire. Il Pm Paolo Ferri, con i carabinieri del Comando per la Tutela del patrimonio artistico, verbalizza che «il Satiro era ancora imballato e non restaurato: in un locale davanti al Comune, piantonato da due vigili». Loro, si spostavano con dei motorini; erano in possesso di armi, e, per il trasporto del Satiro, «di un Ducato con portellone laterale». Il bronzo era «destinato a Matteo Messina Denaro»; dopo averlo portato via, sarebbe stato sotterrato: una buca era già pronta; «quindi, portato in Svizzera». Qui, la faccenda diventa più fumosa: non si capisce bene se era per Messina Denaro, o per un’altra collezione; «dicevano che il valore era immenso, e a noi avevano promesso due o trecento milioni». «Appostamenti, e ripetuti sopralluoghi». Una sera, seguono uno dei vigili, che esce per acquistare una pizza; al ritorno, quando sta per essere preso ed obbligato a far entrare i rapinatori, «improvvisamente è arrivata gente, e abbiamo desistito». Poi, il Satiro sparisce: portato via per il restauro. Non se n’è fatto più nulla: il piano è caduto, anche perché i due “committenti” sono stati arrestati ed il terzo, il Gangitano, è morto alla fine del medesimo 1998.

Però, non era la prima volta in cui si parlava, e trattava, d’arte: d’archeologia rubata o clandestina. Giovanni Brusca (detto «lo scannacristiani» per la sua ferocia: colui che scioglie nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo e aziona il telecomando della strage di Capaci, l’assassino del giudice Giovanni Falcone, della moglie e della scorta; egli pure “pentito”), racconta, a proposito di Matteo Messina Denaro, di «un’anfora d’oro da un miliardo e mezzo di lire che stava in Svizzera» e «sculture antiche di cani senza la testa». E un altro pentito di rango, Angelo Siino, spiega: «Francesco Messina Denaro, padre di Matteo, era un bidello; la sua carriera comincia come “tombarolo”: aveva trovato in un fondo tantissimi reperti». Francesco Geraci, che era nel “giro” e possedeva una gioielleria frequentata da Brusca e Totò Riina, ricorda anche il periodo degli attentati contro gli Uffizi, e a Roma, San Giorgio al Velabro e il Laterano: «Abbiamo iniziato a pedinare Maurizio Costanzo; ma prima, a casa mia, Matteo mi ha riferito degli attentati a strutture monumentali. Mi hanno detto che lo sapevano solo in pochi: un piccolo gruppo di “Cosa nostra”; ricordo che si parlava di far saltare anche la Cappella Sistina». Ma la cosa s’era rivelata, evidentemente, troppo complicata. E’ la stagione della “trattativa”, non ancora chiarita, tra l’“onorata società” e spezzoni dello Stato: una posta tanto rilevante fa anche dimenticare l’amore per l’arte, vero?

Di Messina Denaro jr., il processo Becchina svela alcuni dettagli: già latitante, soggiorna comodamente in Svizzera. E uno dei suoi, Giuseppe Fontana ormai condannato, viene arrestato alla frontiera con reperti archeologici di frodo; ma in un’altra occasione, bloccato dalla polizia elvetica a Basilea, dove Becchina possedeva negozio e tre magazzini di archeologia illegittima che gli sono stati sequestrati con un possente archivio di documenti e fatture: aveva con sé una lista dattiloscritta, con i prezzi di una serie d’armi da guerra (anche un Kalashnikov); un preventivo pari alla somma di cui è stato trovato in possesso e che aveva già cambiato in franchi svizzeri; e, per finire, s’era anche già recato a far visita ad un negozio d’armi in città.

Nessuno degli interrogati, tuttavia, ammette di sapere qualcosa della Natività di Caravaggio: un capolavoro alto due metri e rubato nel 1969 dalla chiesa di San Lorenzo, a Palermo, certamente dalla mafia. Alcuni dicono che la tela sia andata distrutta; altri, invece, che esista ancora; i “carabinieri dell’arte” ne sono convinti, e il Caravaggio resta ancora, per loro, il “ricercato numero uno”. Il Pm Paolo Giorgio Ferri sta per andare in pensione: «Peccato, perché mi sarebbe tanto piaciuto riuscire a trovarlo».