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23/09/2009 06:07:08

24 anni fa moriva Giancarlo Siani: cronista ucciso dalla camorra

 

E’ triste pensare che in un paese, non particolarmente esteso geograficamente, come il nostro vivono diversi tipi di organizzazioni malavitose. E’ triste anche sapere che ci sono e che certa gente convive con esse lasciandole sguazzare nel loro mare d’illegalità, probabilmente perché il coraggio, in tali occasioni, rischierebbe di essere “ricompensato” con la morte. Il motto comune di quei cittadini, che si vedono quindi costretti a coabitare con tali associazioni delinquenziali, sembra proprio corrispondere a quella raccomandazione che ci facevano i nostri nonni e i nostri genitori: “fatti i fatti tuoi che campi cent’anni”.

Nei primi anni ottanta la camorra nel napoletano sembrava essere un secondo stato per organizzazione, capitali e potere coercitivo. Ovunque c’era la sua mano invisibile, anche in politica. Tutto ciò ovviamente lede il principio pacifico di una società e instaura un sentimento timoroso nei cittadini, che raccomandano ai più giovani di abbassare lo sguardo dinanzi alle malefatte della camorra. La Campania tirrenica in quegli anni era spudoratamente in mano all’organizzazione camorristica che, soprattutto a Napoli e nei comuni limitrofi, instaurò il suo regime a suon di spari e coinvolgendo la società ridotta in condizioni disagiate. E adesso se tutto ciò non è un affare che interessi la comunità, quale dovrebbe esserlo? Se tutto ciò non deve essere affrontato dai campani, col coraggio di chi vuol proteggere la propria “casa”, a qual riguardo bisogna intervenire alzando la voce?

Giancarlo Siani prima di essere un giornalista, un bravo cronista che scriveva con semplicità e giustizia, era soprattutto un amante della propria terra. Dunque un ragazzo che si faceva “i fatti suoi”, ma non in senso omertoso, non stava in silenzio davanti al progressivo marcire partenopeo di cui la camorra ne era fulcro.

Il mestiere di giornalista necessita di una grande tenacia e dedizione per la notizia, Giancarlo l’aveva già dagli esordi, oltre che un forte interesse per le problematiche sociali che affliggevano la sua terra. L’estromissione del suo attivismo giornalistico avvenne già nell’imminente fase post-adolescenziale con la collaborazione alla rivista Osservatorio sulla camorra e al giornale sindacale di denuncia Il lavoro nel Sud. Giornali che trattavano argomenti a sfondo sociale, soprattutto in relazione alle vicende riguardanti la mala organizzata, davanti alle quali Giancarlo non poteva e non voleva restare inerte.

Appartenente a una famiglia medio - borghese di Napoli, per Giancarlo è da escludere la qualifica data frequentemente ai ragazzi facenti parte del suo stesso ceto sociale e osservanti di una certa passività: “figlio di papà”. Con zelo e fermezza sapeva quel che voleva ed era pronto a tutto pur di svolgere ciò a cui aspirava, pur di fare il giornalista.

Nulla poteva far barcollare Giancarlo e i suoi ideali, nemmeno la fauna camorristica di Torre Annunziata. Dopo le precedenti collaborazioni all’Osservatorio sulla camorra e a Il lavoro nel Sud, sì di spiccato interesse per tematiche scottanti, ma di esigua tiratura, Giancarlo venne chiamato da Il Mattino di Napoli per operare come corrispondente nel comune oplontino. Quella torrese era una realtà dura, una città che aveva sgretolato, ad opera della camorra, la propria identità industriale e che era diventata una grossa “cesta” da cui la malavita organizzata arraffava i propri militanti. E Giancarlo, ragazzo semplice e gioviale, si mostrò sin da subito attivo davanti agli intrighi che soffocavano Torre Annunziata. Intrighi e magagne che venivano raccontate da Giancarlo con l’occhio attento di chi vuol andare fin in fondo dinanzi a questioni che nessuno osava smascherare.

Il carattere giornalistico di Giancarlo era pure espressione del suo essere vero, del suo essere onesto. I suoi articoli non erano dettati da una brama di conquista, dal fanatismo per i soldi e per la fama. Scriveva semplicemente la verità (solo per correzione ortografica eludo la possibilità di far diventare maiuscola quella “v”), scendeva in strada e osservava i “muschilli” vendere la droga, ma aldilà della limitata cronaca cittadina aveva intuito ben altro, e queste intuizioni le verificava sempre con accurate indagini.

La gioventù in questo caso non è sinonimo d’ingenuità, non vuol dire nemmeno irrazionalità. Le sue parole erano il frutto di fervide indagini che lo portarono a scoprire la complessità e l’operosità a lungo raggio della camorra.

Torre Annunziata in quel periodo era controllata dal boss Valentino Gionta che col mercato del pesce e il contrabbando di sigarette aveva accresciuto il suo potere nel comune oplontino fino ad arrivare a controllare lo spaccio della droga. Ma c’era di più. La camorra non era sola, l’appoggio delle amministrazioni politiche locali non era un puro frutto di fantasia e questo Giancarlo l’aveva capito. Durante gli ultimi mesi della sua vita oltre che alla cronaca si stava dedicando a qualcosa di ben più scottante. Indagando sulle collusioni tra criminalità organizzata e politica, terra pressappoco inesplorata dal giornalismo campano di quegli anni, Giancarlo sembrava aver scoperto qualcosa di molto grande, forse più del suo coraggio e di ciò ne aveva la sensazione. Si teneva spesso in contatto col suo direttore all’Osservatorio sulla camorra, Amato Lamberti, forse perché si sentiva solo e inerme di fronte a ciò che aveva tra le mani. Qualcosa di tremendamente grosso riguardante l’interessamento della camorra sui miliardi di finanziamenti per la ricostruzione delle zone distrutte dal terremoto del 1980. Quel “qualcosa” non venne mai a galla. Il 9 giugno 1985 il boss Gionta venne arrestato, Giancarlo aveva scoperto che c’era stata una soffiata da parte del clan Nuvoletta che voleva sbarazzarsi del boss torrese divenuto troppo espansivo. L’articolo di Giancarlo, il giorno seguente, diede anche la sua sentenza.Per chiarire i mandanti e gli esecutori dell’omicidio Siani dovettero passare numerosi processi e ben 12 anni. Solo nel 1997 si accertò che a volere quell’omicidio furono i boss Gionta, Nuvoletta e Baccante.

A 24 anni dalla sua morte di Giancarlo Siani rimane il ricordo di un ragazzo precocemente saggio, e di un italiano, uno dei pochi, sprovvisto di quell’ipotetico gene.


Francesco Appari