Nell'operazione militare culminata con lo sbarco in Sicilia nel 1943 non ebbe un peso determinante il "complotto" tra le forze alleate e la mafia. Lo storico Salvatore Lupo ha ridimensionato la fondatezza di una lettura, non solo giornalistica, delle vicende politico-militari di 70 anni fa che assegna una parte essenziale al contributo delle "famiglie" italo-americane. Lupo ha proposto una ricostruzione più complessa dei rapporti tra i vertici americani e i boss nella giornata di apertura del convegno, che si svolge a palazzo dei Normanni, sullo sbarco in Sicilia e il "mondo nuovo" promosso dalla fondazione Federico II in collaborazione con le università di Palermo, Catania e Messina. La teoria del "complotto" è stata da varie parti richiamata per spiegare il crollo del regime e dello Stato fascista nel 1943. "In realtà - ha detto Lupo - il collasso trova le sue origini nella crisi del fascismo e nella sproporzione delle forze in campo". Le strategie degli Alleati erano diversificate: gli inglesi conoscevano meglio il teatro italiano, ma gli americani "avevano una politica per gli italiani che faceva perno sull'emigrazione". Per raggiungere i loro obiettivi mandarono in campo proprio due italo-americani: Max Corvo, giunto in Sicilia come capo dell'intelligence, e Charles Poletti, incaricato di gestire gli affari civili dell'amministrazione militare. La mafia, che già negli anni Trenta era risorta dalla bufera dell'operazione Mori, tentò di mettersi in gioco. Ma non ci fu alcuna "connection", ha insistito Lupo. Secondo lo storico l'unico rapporto vero con Cosa nostra si realizzò, con la mediazione di Lucky Luciano, sul fronte del porto di New York e si poneva un obiettivo politico interno. In Sicilia, dopo la nomina di mafiosi nelle amministrazioni civili, gli stessi americani deposero i nominati quando ebbero piena cognizione delle loro biografie.