Per la prima volta, dopo molti anni, a Trapani non sarà più attivo alcun Centro di Identificazione ed Espulsione per immigrati.
Il recente annuncio con il quale la prefettura ha comunicato la prossima chiusura del campo di internamento di contrada Milo, rappresenta - di per sé - una buona notizia.
Purtroppo, però, non è possibile rallegrarsi più di tanto. Il CIE resterà chiuso per lavori di adeguamento orientati a un ulteriore accanimento repressivo: saranno impiegati più di 660.000 euro di soldi pubblici per innalzare i muri di cinta e blindare ancora di più una struttura che, in soli tre anni di esistenza, è stata letteralmente devastata dalle persone che vi sono state rinchiuse. Solo nell'anno appena trascorso, per stessa ammissione del prefetto, sono stati più di seicento i tentativi di fuga, con il drammatico corollario di proteste, rivolte, scontri, violenza poliziesca.
Tra chiusure più o meno forzate, il numero dei CIE attivi in tutta Italia si è praticamente dimezzato. Si tratta di strutture gravemente danneggiate dalle rivolte, ingestibili, criticate da più parti, meno appetibili persino per le stesse associazioni che lucrano sulla detenzione camuffata da accoglienza.
In questo quadro, suonano quanto meno patetiche le dichiarazioni di quei politici che, com'è accaduto a Trapani, si prendono il merito di aver fatto chiudere i CIE. Se mai la politica sull'immigrazione in Italia dovesse modificarsi in una direzione meno brutale, il merito sarà da ascriversi solo ed esclusivamente agli immigrati che in questi anni si sono battuti coraggiosamente contro tutto questo, organizzando proteste, documentando gli abusi, rischiando in prima persona.
Nelle scorse settimane, abbiamo visto la parte migliore di Trapani scendere in piazza per i propri diritti e per il rispetto della dignità: dai blocchi stradali di Bonagia alla protesta del "Serraino Vulpitta", i richiedenti asilo sono usciti dall'anonimato denunciando i ritardi della burocrazia che gli impedisce di vivere.
Da qualche tempo, alcuni esponenti del governo dichiarano di voler ripensare in senso meno restrittivo le leggi sull'immigrazione. La recente abrogazione al Senato del reato di clandestinità (solo per chi entra per la prima volta in Italia) sembrerebbe andare in questa direzione, ma quello che i politicanti non dicono è che restano ancora in piedi tutte le altre fattispecie di reato penale legate a condotte che vìolano provvedimenti amministrativi. Le altre dichiarazioni d'intenti (riduzione dei tempi di permanenza, umanizzazione delle strutture, ecc.) restano tutte da verificare.
Quello che non si dice è che, assai probabilmente, si vuole spostare sempre più a Sud la frontiera di questa Europa-Fortezza, fermando gli immigrati ancor prima della loro partenza, magari nei lager libici, o intercettandoli in acque internazionali attraverso i mezzi impiegati nell'operazione "Mare Nostrum".
La volontà di militarizzare il Mediterraneo anche per fare la guerra agli immigrati (recuperando la vecchia scusa del contrasto al terrorismo internazionale) è confermata dal recente incontro del ministro Mauro con il segretario della difesa Usa Hagel, nonché dalla brusca accelerazione nel completamento del radar MUOS di Niscemi.
Uno scenario agghiacciante con una posta in gioco davvero alta: la libertà e la pace tenute in ostaggio dalle politiche di dominio degli stati.