E se la smettessimo con la retorica della commemorazione. Io per prima, s’intende. È imbarazzante trovarsi su un palco accanto ad esponenti politici che invocano la pace pur essendo rappresentanti politici di un partito che ha sottoscritto una partecipazione attiva contro il terrorismo in Siria, non solo militare, ma anche culturale. Che fanno, bombardano le città gettando libri grossi e pesanti? In realtà i bombardamenti producono più morti tra i civili, come denuncia Sylvain Groulx, responsabile di Medici senza Frontiere in Siria. Nella settimana della Giornata della memoria gli appuntamenti si susseguono, tutti ci impegniamo, molti in buona fede, altri meno. Scolaresche, associazioni, attori e intellettuali, tutti vengono coinvolti e si sentono coinvolti, ché non si dica che sono indifferenti alla più grande tragedia umana di tutti i tempi. E ci si commuove, davvero, a sentire o vedere rappresentata la storia di uomini privati della dignità pure dopo la morte. Il dramma rappresentato è sempre inadeguato, impossibile compenetrarsi in quella sofferenza, quella fame, quel freddo, quel dolore. Le parole che abbiamo sono inadeguate, bisognerebbe inventarne di nuove. Primo Levi ha provato a raccontare questa storia, la sua esperienza nei luoghi dell’orrore. Era già uno scrittore prima della deportazione e questa è stata la sua condanna, da sopravvissuto. Sopravvivere ai campi di concentramento diventa, per l’autore, una colpa, una maledizione, insopportabile al punto di spingerlo a buttarsi giù dalla tromba delle scale della propria casa. Il suicidio è sempre un enigma, probabilmente anche per lo stesso suicida. Eppure, qualche indizio lo troviamo nel suo I sommersi e i salvati. Mi piace pensare che quel suo Considerate se questo è uomo fosse anche rivolto all’aguzzino, il carnefice che massacra, sperimenta sui corpi dei bambini. Se tutto ciò è stato possibile non serve neppure scomodare Dio, il grande assente è l’Uomo. Quei bastardi tedeschi non erano divinità imbattibili, ma uomini, come lo era Levi, come le vittime, come lo siamo noi. Primo Levi, sopravvissuto alle atrocità di Aushwitz non è riuscito a sopravvivere all’orrore di appartenere alla stessa razza di quei maledetti tedeschi. Il delirio nazista non ha risparmiato neppure la cosiddetta razza ariana, vi segnalo un libro di poche pagine: Il piccolo Adolf non aveva le ciglia di Helga Schneider. È la storia della moglie di un ufficiale delle SS, ariana, con tanto di certificato di idoneità razziale e biologica alla procreazione come imposto da Himmler a tutte le future spose degli ufficiali, ma il loro bambino, il piccolo Adolf, nasce con qualche problema e non viene risparmiato dal programma voluto dal Führer del Terzo Reich: eliminare fisicamente i “pesi morti” della nazione a favore della creazione di posti letto per i feriti del fronte. La follia è istituzionalizzata. C’è un altro romanzo, recente, che parla di deportazione: L’impostore di Javer Cercas, una storia incredibile e vera quella di Enric Marco, uno spagnolo che si è finto, per sessant’anni, deportato in Germania, coperto di onorificenze viene, a un cero punto, smascherato da uno storico, alla vigilia di un discorso da fare davanti al presidente spagnolo. Detto così si prova subito un disprezzo assoluto nei confronti del personaggio, eppure, la narrazione di Cercas riesce a farti provare una inspiegabile forma di empatia per quell’impostore bugiardo che racconta la verità su ciò che è stato. Gli ultimi superstiti stanno morendo, presto a noi resterà solo la commemorazione, una memoria di numeri e date, fredda come solo la storia sa esserlo. Una memoria priva di ricordo diretto. E se la smettessimo con la retorica della commemorazione, barattando la memoria con la coerenza nei fatti. Gli innocenti che muoiono ogni giorno con le nostre guerre giuste, necessarie, non muoiono meno degli altri. Questa pietà che segue logiche geopolitiche mi sconcerta, siamo ancora quelli della pietra e della fionda… siamo ancora complici, privilegiati.
Katia Regina