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05/07/2016 06:50:00

Piccole storie di ordinaria disuguaglianza: istruiti ma disoccupati

 Danzano, da tempo, sul claudicante palcoscenico della società italiana, nuove figure professionali. Vediamone, più da vicino, contorsioni e acrobatiche piroette. Laureati con lode in lettere classiche che, invece di dissertare di aoristo e consecutio temporum, impettiti, presidiano la cassa di un qualche supermercato. Raffinati architetti che, invece di lanciare idee innovative per il recupero dei centri storici o disegnare gli interni di antichi casali, armeggiano, muniti di caiddarella e cazzola, in qualche sperduto cantiere. Dotti giuristi che, in luogo di districarsi tra codici e pandette, portano le valigie in camera a danarosi clienti di Hotel a 5 Stelle,nei quali sgobbano pagati con voucher. Cultori di Hannah Arendt, ingaggiati in caotici call center, per illustrare a riottosi interlocutori le ultime novità, offerte a prezzi stracciati. Studiosi di Chomsky, convertiti in badanti di anziani degenti di case di cura private. Brillanti studenti di Conservatorio, ormai meno in confidenza con le scale tonali, che… con quelle di marmo che, quotidianamente, sono costretti a lustrare. Le ragioni di un simile guazzabuglio? E’ presto detto: s’è bloccato “l’ascensore sociale” che coniugava il diritto all’istruzione con il progresso civile. La mia generazione, ad esempio, quell’ “ascensore” lo ha preso al volo: abbiamo avuto il “privilegio” di poter studiare (spesso, i primi laureati di un albero genealogico popolato da semianalfabeti) e, successivamente, di utilizzare i titoli conseguiti per salire qualche gradino della scala sociale. Non era stato sempre così.Un tempo, s’istruivano solo i rampolli delle classi agiate. E gli altri? Quelli nati e cresciuti nelle famiglie povere? A lavorare, fin dall’infanzia. Tant’è che Franchetti e Sonnino, nella loro celebre inchiesta (1875), così scrivono: “Se la statistica ci dà nella popolazione complessiva della Sicilia l’87% di analfabeti, nella classe dei contadini la proporzione si avvicina moltissimo al 100%”. Un secolo dopo, negli Anni Settanta del ’900, favorito dall’articolo 34 della Carta (“La scuola è aperta a tutti”) c’è l’avvento della ‘scuola di massa’. Che, tra luci ed ombre, assolve, comunque, a due importanti funzioni: eleva i livelli di istruzione e proietta nei ranghi del ceto medio, soggetti che ristagnavano da secoli nell’ambito del luppenproletariat. Oggi,però, a cinquant’anni di distanza,l’orologio della storia, riporta indietro le sue lancette: i giovani sono, di certo, più istruiti dei loro genitori (per tacer dei nonni!)ma ciò non gli garantisce alcun progresso sociale. (2,3 milioni i NEET in Italia). E, siccome si ritiene che il “reddito di cittadinanza” comporti costi incompatibili con la crisi attuale, finisce che la mancanza di autonomia economica, se induce i più audaci a lasciare l’Italia, toglie, alla maggior parte dei ragazzi, le residue speranze di trovare un’occupazione, azzera la loro autostima e (in non pochi casi) li avvia ai Centri di Salute Mentale, a curare l’inevitabile depressione. Chi si salva? Com’è sempre accaduto, i rampolli delle famiglie benestanti. Possidenti, imprenditori, commercianti, liberi professionisti: titolari di un vasto patrimonio di relazioni sociali, corroborato dalla militanza nei vari ‘Club Service’ (o – come apprendiamo da una recente inchiesta di Tp24.it – dall’ appartenenza ad una delle tante, fiorenti logge massoniche operanti anche nel trapanese). Per tutti gli altri, invece, svanisce il sogno di utilizzare l’istruzione per elevarsi culturalmente e, al contempo, per fare un piccolo passo avanti rispetto ai genitori. Si é tornati ai primi del ‘900: i poveri sono sempre più poveri e i ricchi lo diventano sempre di più. Ecco perché, tutti coloro che si strappano le vesti per l’uscita della Gran Bretagna dall’UE, farebbero meglio a far sentire la loro voce perché si possa tornare allo spirito del ‘Manifesto di Ventotene’, all’autentico ideale europeo. Fondato sulla nascita della Federazione degli “Stati Uniti Uniti d’Europa”, per assicurare la pace ed elevare gli standard minimi di civiltà dei cittadini: non certo per farne dei sudditi, succubi dei diktat di onnipotenti oligarchie finanziarie. Quanto al nostro Governo, piuttosto che annoverare tra le priorità le bislacche proposte di modifica costituzionale, farebbe bene a rimettere al centro della sua agenda il principio-cardine, la carta d’identità del nostro Paese: quel lapidario Primo Articolo della Costituzione Italiana, che, non a caso, così recita: “L’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro”

G. Nino Rosolia