Sabato 17 giugno l’iniziativa Letti di notte, la notte bianca del libro e della lettura, inaugurerà un’estate ricca di pagine e incontri. Per l’occasione l’Associazione Culturale Otium ha organizzato uno speciale appuntamento con quattro poeti esordienti provenienti da tutta la Sicilia. Nel corso delle settimane la rubrica «In Versi» di Tp24 si ripromette, a partire da quest’articolo, di aspettare l’evento scoprendo gli autori ospiti e le loro poesie.
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Nessuno riesce mai a nascondere del tutto le ferite che porta addosso. Sono tracce della nostra storia, testimonianze fisiche dell’impatto con il mondo. Ognuna è diversa dalle altre per forma, profondità, motivo di nascita, ma ne esiste una che accomuna tutti gli uomini: è la ferita della lingua, il primo taglio, impossibile da rimarginare, che definisce l’identità.
Sopra quella cicatrice Carola D’Andrea tenta il cimento del dialetto - per la prima volta nell’inedito offerto questa settimana alla nostra rubrica - come antidoto contro la dispersione e la perdita della cultura vernacolare ovvero dello specchio su cui si riflette il cuore della sua matria. Per la poetessa di Mazara del Vallo, recentemente vincitrice del Premio Alda Merini, abitare queste parole ancestrali significa vestire una peddi nova («pelle nuova») per percepire la materia illibata del reale, non smettendo paradossalmente di sentire, al di sopra dell’epidermide, il pulsare del vulnus antico.
Nel 1986 Leonardo Sciascia disse che conservare il dialetto era ormai un’operazione di necrofilia. I versi di poeti e poetesse come Carola D’Andrea ci aiutano a smentire, con rinnovata speranza, le parole del maestro di Racalmuto.
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U vitti na l'aisata d'u suli
u cori chi m'avianu ratu
ranni buttiava russu abballava
chinu chinu
ma leggiu si muvia rintra u cielo
un piciriddu ‘nvrazza
chi suca annacatu paria.
L' avissi agguantatu
incuddratu rintra a me fiura
avissi fattu tutti cosi novi iddru
lassannumi ciavurusa
comu na casa arisittata
puliziata p’a ruminica ri Pasqua.
Ho visto nel lento levarsi del sole/ il cuore che mi avevano donato/ ballava nel suo battito vivo/ pieno/ ma leggero si muoveva dentro il cielo/ come un bimbo cullato che allatta/ tra le braccia della mamma.// Se l’avessi afferrato/ incollato al mio corpo/ ogni cosa avrebbe rinnovato/ lasciandomi profumata/ come una casa ordinata/ pulita per la domenica di Pasqua.
MARCO MARINO