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06/03/2018 06:00:00

Le "solitudini" di Nino De Vita

 Beato è colui che accoglie umilmente le confidenze del cuore e sa ascoltare, in disparte, i soliloqui dell’anima. Beato è chi sa cogliere, con l’occhio discreto del poeta, le cose varie e nascoste che ci portiamo dentro e negli atti, tanto più se … «d’allegrezza spenti» (sussurrerebbe all’orecchio Petrarca).

Beato è chi rifiuta l’indifferenza e non volge lo sguardo lontano dagli stramazzoni della vita, ma si sofferma a coglierne la recondita essenza! Beato è chi scardina le apparenze e affida la verità a un singulto di penna! 

Beato è chi sa proferire parole infuocate, intercettate fra i dialoghi di esistenze che si aggirano, misere, nelle loro solitudine, parche di sé, avide di altre. È il cannibalismo degli spiriti umani. È la danza delle inquietudini che si placano se intrappolate in un intreccio che si sublima in…altre vite.

Questi sono i libri. Questi sono i sensi dei poeti. Qui decantano distillati di vita, estratti fissati in un’immagine sapida di mancanze e dolori, come quelli che ci offre il poeta siciliano Nino De Vita nella sua più recente raccolta, Sulità (Messina, Mesogea, 2017, pp. 170).

. Una selezione di 24 pinakes plasmati finemente nel dialetto di Cutusìu, borgo marsalese emergente nello spazio letterario italiano come traboccante nutrice di poesia, grazie all’inesauribile rapporto simpatetico che il poeta, quale spettatore attento e interessato, stabilisce con le esistenze malferme, spesso sgomente, della sua terra. Nel legame dello scrittore siciliano con il luogo di appartenenza, si assiste a un deciso sovvertimento del ruolo canonico della patria: da sempre invocata, vagheggiata nella canzone lirica e civile, la terra natia, la Cutusìu di Sulità, si fa, a un tempo, musa (alla quale con tacita complicità rivolge la sua invocatio) e materia viva e parlante del canto stesso.

La voce di Nino De Vita è quella degli abitanti di Cutusìu, così come gli epitaffi di Edgar Lee Masters appartengono direttamente ai cittadini della collina di Spoon River. In comune fra il poeta americano e quello trapanese è l’avere duo corda, lirico e narrativo, pulsanti all’unisono nei loro versi. L’io lirico dell’autore siciliano è continuamente rapito dalle storie dei suoi personaggi, di cui sembra annotare, da angolature diverse, non solo debolezze e fratture, ma, quasi con sbigottimento, anche impensabili slanci di eroico riscatto. Qua e là è dato avvertire l’io del poeta nell’atto di infrangere la pluralistica e oggettiva visione della realtà, quella che deriva dalla profusione di soggetti umani che la popolano…quasi a «fare concorrenza allo stato civile», come in Balzac. De Vita, infatti, è pronto a retrocedere dinanzi alla sacralità della solitudine, che, proprio come una vox media, ci appare metamorfica e cangiante, nella poliedrica rappresentazione di un microcosmo siciliano.

Le vite di Cutusìu scorrono… Il poeta le afferra, le blocca in un’immagine, condensandole in un oggetto, o in un colore: i ciuri (i fiori), il ciottolo, il rosso del cuoricino di corallo in ’U rrialu. A soffermarsi su questo, dono destinato a rimanere chiuso nella bambagia serrata in un taschino, si nota che la sua presenza-assenza si fa viva, in sordina, attraverso il continuo richiamo dell’uomo invaghito che picchietta le sue dita contro la scatolina. Ma a scansarne la timida eleganza è il rosso  sanguigno di un’arancia sbucciata, nell’atto di affondarvi con vigore le dita: il succo, sangue di gelosia che sgorga, come da  una spina conficcata nel petto, dilava l’anima dell’innamorato. L’amore, non svelato, si cristallizza dinanzi alle movenze decise della donna… irrimediabilmente destinato ad impastarsi con il fiele della solitudine.

«I libbra stannu fermi», si legge nell’incipit della lirica metaletteraria che si staglia anche sulla quarta di copertina, «ma rintra hannu una vita / ch’i macina». Le vite, quelle sfiorate dal verso diegetico di De Vita, si librano in volo, attratte dal vorticoso moto centrifugo che le allontana dall’immobilizzante amechania della loro natura e vanno, con o senza meta, invocando la redenzione della loro esistenza meschina e lacera, sbrindellata nel corpo e nello spirito, come Pino Ciulla in ’A scala: Tersite mutilato che esorcizza la sua condizione guardando la folla ai piedi della scala che, con indicibile fatica, puntellando la gruccia, è riuscito ostinatamente a salire. Nei libri «cci su’ nzivati tinti / nne cantunera bbianchi / ri fogghi», si annidano indicibili paure, come le confidenze della sezione Cosi intrìsichi. C’è Rosa, una maestra ‘abbruttita’ e isolata dal male di vivere. Tutto attorno a lei è incupito da un’aura di precarietà: il suo lavoro, l’amicizia, il marito stesso, nonostante le premure che le riserva. Ella vive il dramma dell’esclusione, della fragilità; rappresenta chi, nella società, viene ostracizzato attraverso l’auto-emissione di una sentenza di inettitudine. E poi c’è Michelino che ci fa spazio nella sua solitudine, l’angulus che sembra proteggerlo dalla brutalità del padre, ma anche la dimensione dove riesce a ritrovare la madre. Ecco che il nascondiglio diventa la dimora del dolore dalla quale fuggire ancora: non più lo struggimento fisico della minaccia e della paura, ma la ‘resezione’ che strappa l’anima e lascia il vuoto («idda chiama, mi chiama / e poi ’in si fa attruvari»). A seguire, quasi per compensazione, diventa dominante la presenza di una madre (quella di Damiano) che cerca di alleviare la nera povertà che attanaglia la sua casa, offrendo da mangiare al suo bambino pane e companatico, ma altro non è che «pani su ’a muddica», intriso delle lacrime di una madre-pellicano che si strapperebbe la carne del petto a morsi per dare da mangiare alla sua creatura. A chiudere le ‘confidenze’, c’è Rosalia. Questa, nel giorno del compleanno, fa rimbombare di solitudine le mura di un ospizio: «Cu sta cca intra, comu / ammia, castiata, senza / ri nuddu, sti pinzera / assai su’ bbenaccetti». Qualcuno è lì, l’autore appunto, per barattare con lei, al prezzo di un sorriso, un frammento della sua emarginazione da incastonare nel suo libro. Ma tutto ciò sembra non bastare, perché «la foga (di un pensier) l’un dell’altro insolla» e il dialogo si affievolisce per ascoltare in silenzio l’anima rivelatrice della verità.

Nei libri c’è il silenzio, come nella seconda sezione dal titolo «Rrutulìi» (Soliloqui). A questa altezza della plaquette svettano dolori  e laceranti struggimenti di uomini e donne che devono fare i conti con prepotenze, pene e i palpiti del cuore: da una parte c’è un litigio per l’eredità che amareggia l’innocenza di Vincenzo sottratto meschinamente dal padre alla vista («ce lo strappa dagli occhi») dei nonni materni; dall’altra, il dolore per un amore da soffocare, perché rivolto al fidanzato della sorella. Ecco la «rica / chi ddu stòmmacu acchiana / nno pettu […] un linzittiari / è chissu ri trummentu…», che a volte inonda tutto, «’a testa ’u senziu», e poi se ne va, «mi veni ri nfuddiri» (mi viene da impazzire): una fine sintomatologia dell’amore che sembra riecheggiare gli effetti suscitati dalla fanciulla amata nell’ode della gelosia della poetessa greca Saffo (fr. 31 West), riproposta dal poeta latino Catullo (nel carme LI) . «R’un àngiulu paria chiummatu nna sta casa» non è poi molto lontano (chiaramente a mo’ di sublime d’en bas) da «ille mi par esse deo videtur».

De Vita ci fa conoscere ancora un’altra solitudine, quella che non deriva dalla dimenticanza, dall’abbandono o dall’indifferenza, ma quella che si alimenta nel disprezzo, nelle parole urlate di chi inveisce contro un vecchio padre (Infuriato uscì). Ci verrebbe da chiedere a chi appartiene questa sulità: a chi maltratta o a chi viene maltrattato? Ai vinti o ai soverchiatori? «I libbra stannu suli, comu chiddi / chi sunnu dispizziati, l’angariati…», ma forse la solitudine è la condizione più vera di chi lascia le parole strette nei ripiani a macchiarsi di polvere e muffa. Di certo non può finire così. L’epilogo non è la disperazione, perché… «I libbra cci hannu ’a firi, / i’i palori chi sarvanu». Di questo, si fa exemplum un altro personaggio di De Vita, Oronzo, a cui ogni movimento costa indicibile e sovrumana fatica. È lo storpio che non conosce l’armonia del corpo, ma che sa bene quanto una parola possa essere incantevole guaritrice per la sua anima. È il simbolo delle esistenze che si dimenano e disperatamente tendono verso un puntello di salvezza stirando tutti i nervi del collo, storcendo la testa e strabuzzando gli occhi, pur di battere i suoi polpastrelli sui tasti di una macchina… per scrivere una lettera o una poesia. Solo così può dare finalmente compimento al suo più grande anelito: quello di camminare, anche se non sono le sue gambe contorte a muoversi, anche se non sono i suoi passi mai dati a condurlo verso la meta. Sono le parole a sollevarlo dalla sedia alla quale la sua esistenza è stata irrimediabilmente annodata. Sono i versi, atomi fluttuanti pregni di senso e potenza salvifica, a coprire le distanze che separano gli individui dalla loro sospirata redenzione.

Ed è qui adagiata la culla dell’arte: in chi intimamente compone un inesauribile dialogo con la realtà (ancora più profondo se la locutio è quella materna); in chi sa ascoltare il silenzio; in chi sa dare un nome al vuoto e un volto alla solitudine. Ha il venerabile epiteto di poeta chi sa (ac)cogliere tutto questo!

                                                                                               Marialucia Lattuca