Ascoltato su richiesta della difesa nel processo per l’omicidio del maresciallo dei carabinieri Silvio Mirarchi, il pentito palermitano Sergio Macaluso, ex reggente del mandamento mafioso di Resuttana, ha dichiarato: “Francesco Lojacono mi disse che mise degli uomini armati a lui vicini a guardia delle serre di marijuana che aveva impiantato tra Marsala e Trapani”.
Macaluso, però, non ha fatto i nomi degli uomini armati, anche se l’avvocato Genny Pisciotta, difensore dell’unico imputato, il 46enne bracciante marsalese Nicolò Girgenti, evidenzia che il pentito ha parlato di uomini reclutati a Partinico.
Secondo accusa e parti civili, però, le dichiarazioni del pentito palermitano non portano elementi di novità ai fatti del processo. E cioè l’uccisione del maresciallo Mirarchi. Anche perché, secondo la ricostruzione degli inquirenti (carabinieri e Procura di Marsala), a sparare sette colpi di pistola contro Mirarchi e l’appuntato Cammarata, rimasto miracolosamente illeso, sarebbe stato il Girgenti che, insieme ad un altro complice, “agendo da socio infedele” di D’Arrigo, stava portando via delle piante di marijuana appena rubate all’interno dalle serre. Il sottufficiale dell’Arma, che era vice comandante della stazione di Ciavolo, fu ferito a morte con un colpo di pistola la sera del 31 maggio 2016 in contrada Ventrischi. Di fronte ad alcune serre al cui interno, subito dopo la sparatoria, furono scoperte 6 mila piante di canapa afgana. Serre che fino a circa tre mesi prima erano gestite proprio dal Girgenti. Fin quando, cioè, non ne cedette la gestione al partinicese Francesco D’Arrigo, il suocero di Francesco Lojacono. Quest’ultimo è nipote omonimo dello storico capomafia di Partinico. Secondo quanto riferito da Macaluso, una parte del ricavato di quell’attività illegale doveva andare al clan mafioso da lui capeggiato. La necessità di spostare quell’attività illegale nella parte più occidentale della Sicilia era dettata dal fatto che ormai le forze dell’ordine monitoravano molto attentamente, anche con gli elicotteri, la zona di Partinico e scoprivano quasi tutte le piantagioni. Accusa e parti civili, inoltre, considerano assai improbabile che a sparare contro i carabinieri possano essere state le eventuali guardie armate messe a sorveglianza delle serre. La conseguenza, infatti, sarebbe stata la scoperta della piantagione da parte delle forze dell’ordine. E dunque un lucroso affare sfumato. Il 23 luglio, intanto, saranno ascoltati i periti nominati dalla Corte d’assise di Trapani su richiesta della difesa. Periti incaricati di controllare i dvr delle telecamere di sorveglianza di un abitante della zona (Toro), sul quale però sarebbero state poi sovra-registrate altre immagini, e i cellulari di Girgenti e dei suoi familiari per determinarne la geo-localizzazione la sera della sparatoria. Saranno, inoltre, esaminate le striature dei proiettili della pistola dell’appuntato Antonello Massimo Cammarata, che la sera del 31 maggio 2016 era in servizio con Mirarchi. L’ipotesi dell’eventuale “fuoco amico”, però, è già stata categoricamente esclusa dal maggiore dei carabinieri Antonio Merola, che in aula, quando è stato ascoltato, ha detto che subito dopo la sparatoria si fece consegnare la pistola da Cammarata e accertò che il caricatore era integro. Cammarata, dunque, quella sera non sparò alcun colpo. Ciò nonostante, la Corte d’Assise (presidente Piero Grillo) ha accolto tutte le richieste dell’avvocato Genny Pisciotta, decidendo di estendere i controlli sui telefonini anche a quelli dei familiari di Girgenti. Probabilmente, per non lasciare alcun margine di dubbio al momento della decisione. A rappresentare la famiglia di Mirarchi, costituitasi parte civile, sono gli avvocati Giacomo Frazzitta, Piero Marino e Roberta Tranchida. Parte civile anche l’appuntato Antonello Massimo Cammarata, che rischiò di essere ucciso (e per questo Girgenti è accusato anche di tentato omicidio). A rappresentare il militare è l’avvocato Walter Marino. Le dichiarazioni di Macaluso, infine, mettono nei guai il Lojacono per quel che riguarda la conduzione della serra di marijuana di contrada Ventrischi. Il 19 luglio 2017, infatti, Lojacono era stato l’unico ad essere assolto dal gup Riccardo Alcamo per quella coltivazione illegale. Girgenti, invece, fu condannato a due anni e mezzo di carcere, Francesco D’Arrigo a 3 anni e mezzo e il castelvetranese Fabrizio Messina Denaro a 3 anni e a 20 mila euro di multa. Per i tre imputati, il pm Anna Sessa aveva chiesto la condanna a 8 anni di carcere e 80 mila euro di multa ciascuno. Per Francesco Lojacono, per il quale la Procura ha fatto appello contro l’assoluzione, il pm aveva invocato 6 anni e 60 mila euro di multa.