di Marco Marino
È archeologico l'itinerario che si percorre fra le stanze del Convento del Carmine di Marsala che ospitano la mostra «Ignazio Moncada. Attraverso il colore», a cura di Sergio Troisi, inaugurata il 23 giugno e visitabile fino al 4 novembre. Ma l'aggettivo archeo-logico non si offre all'accezione legata al mondo degli scavi: le opere dell'artista palermitano devono intendersi come un dialogo (lógos) continuo e polimorfo sul principio (arché) della forma e del colore. Una riflessione sull'origine, quella che troviamo agli inizi della produzione di Moncada, che porta le dimensioni di realtà geometricamente astratte (Spazio in movimento, 1968) a smaterializzarsi (Gli aquiloni, 1974) fino a diventare trasparenti (Colonna vertebrale, 1975).
Dopo aver lasciato la Sicilia, Ignazio Moncada instaura col Mediterraneo un rapporto eternamente nostalgico. Ne scrive Troisi nella prefazione del catalogo della mostra pubblicato da Kalós Edizioni: «Per una modalità quasi paradossale dalle Trasparenze si distacca, a ridosso della metà del decennio, una serie breve di opere intitolate all'isola di Panarea dove l'uso di sabbia quale materiale di supporto determina, nelle tonalità tra ocra e rosa, un diverso effetto di profondità, immersivo e memoriale, che di lì a poco andrà a generare il nuovo ciclo denominato Archeologie».
Le Archeologie trasferiscono il dialogo su misure e leitmotiv ancestrali e arcaici (evocazioni di topografie immaginarie e di piante di antichi mégaron), riuscendo a custodire il motivo della trasparenza che non viene più offerta dalle tonalità cromatiche bensì dall'uso di un velario, una carta velina giustapposta all'acrilico (Evento archeologico, 1980). Per affinità tematica e tecnica, conseguente metamorfosi delle Archeologie sarà il ciclo di Alesa, dal nome dell'antica città greca su cui sorge l'odierna Tusa.
«Non incede egli a passo di danza?». Come Nietzsche in Così parlò Zarathustra dipinge danzante colui che ha affermato la propria volontà di potenza e si è fatto carico dei dolori del mondo che lo circonda, così Moncada nei suoi ultimi lavori (Ballabile n.4, 1986; Ballabile n.10, 1987) lascia che il dionisiaco esploda nei movimenti e nelle tinte e che travolga lo spettatore trascinandolo alla corte di un pantheon in cui le divinità non hanno più sembianze umane (Orfeo ed Euridice, 2001; La residenza di Poseidone, 2002), ma sono la rappresentazione del tempo in divenire come «immagine mobile dell'eternità».