di Marco Marino
La poesia racchiude sempre degli spazi al proprio interno. Non intendo dei luoghi che cerca più o meno metaforicamente di descrivere (l'ermo colle leopardiano, ad esempio). Mi riferisco agli ambienti da cui viene generata, da cui trae ispirazione, che restano nei versi come una sorta di sottotraccia. Immaginarli è cercare di leggere l'uomo che sta dietro la parola o, meglio, è rivivere il «dove» che crediamo possa avere dato loro inizio.
L'oratorio di Santa Cita, davanti agli stucchi barocchi di Giacomo Serpotta: è il «dove» che mi ospita quando leggo i versi di Edoardo Cacciatore, poeta palermitano scomparso nel settembre del
1996. Mi è sempre parso che tra il fregio del Serpotta e il verso di Cacciatore ci sia la stessa tensione all'immediatezza e alla gradualità circolare: la sinuosità della decorazione e la misura poetica sono come le cinque dita di una mano, posseggono un movimento distinto e ubiquo, possono dapprima dare e ricevere diverse e immediate percezioni e poi possono ghermire la realtà, racchiudendola, stretta, nel palmo. Questa similitudine è dello stesso Edoardo Cacciatore.
Oggi da Il discorso a meraviglia (Einaudi, 1996), «Nella luna di luglio».
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Nella luna di luglio
Questa luna che dice ad ogni cosa svèstiti
La realtà svela ai sepolcri dell’Appia
Nella luna di luglio due volte superstiti
Al morto prima ed ai vivi poi ch’io sappia
Sopravvivenza mostra un logoro costume
Da un lato all’altro strappato dal collo all’anca
Di ogni sospetto la vita ormai è immune
La nullità consiste si fa pietra bianca
Gli occhi dentro ai quali è un viaggio di laghi
Dimenticano mentre sanno l’accaduto
Non hanno nemmeno l’accortezza dei maghi
Che tengono per dato quanto è risaputo
Questa luna in cui ora andiamo smarriti
È la morte di cui ci siamo rivestiti.