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03/12/2018 06:00:00

Maledetti siciliani

di Marcello Benfante

Proviamo a rileggere e riscrivere parzialmente una celebre pagina di Curzio Malaparte, limitandoci a una sola, ancorché ripetuta, sostituzione di termini, per così dire, geografico-culturali.

“Se è cosa difficile essere italiano, difficilissima cosa è l’essere siciliano: molto più che abruzzese, lombardo, romano, piemontese, napoletano, o francese, tedesco, spagnolo, inglese.

E non già perché noi siciliani siamo migliori o peggiori degli altri, italiani o stranieri, ma perché grazie a Dio siamo diversi da ogni altra nazione: per qualcosa che è in noi, nella nostra profonda natura, qualcosa di diverso da quel che gli altri hanno dentro”.

Come il lettore sa già o comunque facilmente intuisce, abbiamo abusivamente scambiato nel brano le parole toscano-toscani con siciliano-siciliani (sanando peraltro una non casuale omissione). Il passo, che in originale è l’incipit del bellissimo ma faziosissimo “Maledetti toscani” *, naturalmente assume così tutt’altro significato. Tuttavia, regge ugualmente. Rimane cioè credibile. Non perché, beninteso, dica in entrambi i casi una verità condivisibile. Ma al contrario perché in entrambi i casi esprime un’uguale falsità.

Una falsità, si badi, che contiene del vero, e non poco. Perché senz’altro è difficile, e lo è sempre stato, essere italiani. Italiani d’ogni regione, comunque. E a maggior ragione, si dovrà ammettere, italiani del Meridione. Ed è innegabile che i toscani (come i siciliani, d’altronde, ma anche come i napoletani o i lombardi o i veneti, per esempio) abbiano un loro tipico tratto distintivo, una loro peculiare storia e personalità.

Ma la stessa innegabile constatazione potremmo fare per ogni popolo, più o meno. E certamente possiamo farla per ogni regione d’Italia, addirittura per ognuna delle sue mille città.

Anzi, possiamo senz’altro affermare che la caratteristica fondamentale dell’Italia è proprio questo geloso sentimento campanilistico che ci divide tutti e tutti ci unisce.

Un sentimento non solo possessivo e competitivo, ma talora perfino un po’ megalomane e paranoico.

Seguiamo infatti il testo di Malaparte:

“Nessuno ci vuol bene, (e a dirla fra noi non ce ne importa nulla). E se è vero che nessuno ci disprezza, (non essendo ancora nato, e forse non nascerà mai, l’uomo che possa disprezzare i toscani), è pur vero che tutti ci hanno in sospetto”.

Anche qui, se provassimo, per gioco o per ipotesi, a sostituire toscani con siciliani (o napoletani) otterremmo un’affermazione dotata di una qualche coerenza. Non è forse vero che il siciliano crede che nessuno lo ami? E non è forse vero che egli ritiene nel contempo che la sua superba schiatta, la sicilianità o la sicilitudine, non possa essere davvero disprezzata? Senz’altro temuta, guardata appunto con sospetto, a causa della sua indole violenta, magari. Ma, in ultima analisi, anche rispettata, perfino lodata, per la sua intelligenza, ad esempio, o per la sua originalità. 

In Malaparte, come anche in questo immaginario e orgoglioso siciliano che ho appena tratteggiato, si incrociano e collidono due opposte costruzioni ideologiche: l’esaltazione delle virtù del proprio popolo e l’invenzione di un odio e di un dileggio altrui ingiustificati o quanto meno esagerati ed esasperati.

Lo stesso meccanismo ideologico scatta probabilmente in ogni regione del nostro Bel Paese. Scatta senz’altro per i siciliani, che sono soliti magnificare le loro doti, minimizzando i difetti più gravi e drammatizzando (tragediando, diciamo noi) certe loro manie di persecuzione.

Il meccanismo (insieme assolutorio e inquisitorio) funziona sempre, anche perché contiene alcuni elementi di verità. Certamente i toscani sono un grande popolo a cui l’Italia intera (per non dire il mondo) deve moltissimo. E certamente a volte sono o possono apparire un po’ antipatici, proprio per l’intima consapevolezza che custodiscono del loro valore e del loro contributo. E quindi i toscani possono avvertire o supporre negli altri un sentimento di invidia. Letto in questi semplici termini, di psicologia spiccia, il brano malapartiano perde molto del suo alone fatale e filosofico.

Qualcosa di simile accade anche ai siciliani. Sempre pronti, con inconsueta premura, a rintuzzare ogni critica nei loro confronti ricorrendo alle risorse pressoché inesauribili del loro grande e nobile passato, dei templi e dei filosofi greci, di Federico II, dei grandi scrittori, delle magnificenze dell’arte e della natura, dei suoi martiri e delle sue eccellenze. E altrettanto  solerti a contestare ogni denigrazione, a negare i problemi più evidenti, perfino i delitti e gli orrori, perfino la mafia, in nome di un sicilianismo trasversale che accomuna nel furore partigiano ogni credo politico.

In questo delirio di autoesaltazione, i siciliani sono forse un caso limite. Perfino i napoletani, che hanno pari se non maggiore presunzione, la esprimono con più ironia, con più umoristico e compiaciuto distacco.

Il siciliano invece è permanentemente posseduto dall’ossessione di dover dimostrare le sue qualità, il suo talento, la sua innocenza. Ogni suo discorso, privato o pubblico, somiglia a un’excusatio non petita. Ci si difende, nell’Isola del Sole, da un assedio fantomatico.

E perciò il siciliano è sempre in qualche modo sulle spine, tormentato da un dubbio di inadeguatezza, insufficienza, da esorcizzare con uno sfarzoso esercizio di prosopopea.

“Di fronte a un toscano, tutti si sentono a disagio”, scrive Malaparte, con un pizzico, o forse più, di visionaria alterigia. Il siciliano, invece, di fronte  a chiunque è sempre a disagio. Millanta pregi, rivendica primati, enumera il catalogo iperbolico dei suoi tesori, perché si sente perdutamente in difetto. Soffre, insomma, di un complesso di inferiorità che, come da manuale, si esprime nelle forme di un atteggiamento di plateale superiorità.

Scrive Malaparte: “Dal modo di guardare dei toscani, si direbbe che non sono mai testimoni soltanto: ma giudici”. Anche in questo caso siciliani e toscani si collocano agli antipodi. Parafrasando e rovesciando il senso della frase: dal modo di guardare dei siciliani si direbbe che non sono mai testimoni (spesso per omertosa cecità) ma imputati”. E c’è una simmetrica somiglianza, una speculare opposizione, tra la sentenziosità dei toscani  e il carbone bagnato dei siciliani, la similarità consistendo nel non accettare l’autorità d’altro giudice che se stessi, nel collocarsi quindi al di là di ogni possibile condanna.

In certe apologie regionaliste (o peggio ancora municipaliste) si rivela sovente qualcosa di eccessivo e di fastidioso che esorbita la giusta misura, che sbilancia un parere equilibrato e trasforma in sproloquio e in vaniloquio qualcosa che in parte era vera e condivisibile.

Chi può negare infatti che i toscani siano un popolo straordinariamente ammirevole che ha dato del suo talento e del suo genio meravigliose prove? Nessuno, credo.

Ma, a sentire Malaparte che così vaneggia, viene un po’ a tutti un moto di incredula insofferenza: “Che tutti gli italiani siano intelligenti, ma che i toscani siano di gran lunga più intelligenti di tutti gli altri italiani, è cosa che tutti sanno, ma che pochi vogliono ammettere”.

Io credo invece che nessuno tra gli italiani lo ammetterà mai. Che i settentrionali rivendicheranno, quanto meno, un’intelligenza più pratica e produttiva. E i meridionali una più sopraffina furbizia.

Italianissimo, arci-italiano, è infatti il difetto di supporsi i più scaltri, i più arguti, quelli con più sale zucca. Il siciliano, in particolare, è solito presumere di sé un’astuzia più sottile d’ogni estraneo extra insulare, considerato “babbo”, ossia citrullo, scimunito, incapace di cogliere le agudezas d’una logica  sofistica così tagliente da spaccare un capello in quattro.

Va da sé che simili presunzioni (tanto dei toscani che dei siciliani e d’ogni altro gruppo etnico) se non poggiano proprio sul nulla, avendo un fondo di verosimiglianza nelle attitudini storiche di ciascun popolo, sono però equivoche generalizzazioni e illazioni. Spavalderie spocchiose che urtano e indispongono (il “di gran lunga”, peraltro, è la goccia che fa traboccare il vaso).

In ogni forma di campanilismo c’è sempre una componente di gallismo. Ossia un certo tipo di idiozia che si fa più greve per un sovraccarico di maschilismo. “Tutto siamo noi toscani, fuorché femmine”, dice Malaparte. Frase ridicolissima e insensata in cui coincidono il primato dei toscani e quello dei maschi.

E poiché il primato dei toscani su tutti gli italiani è la loro superiore intelligenza, ne deriva che l’intelligenza è in ultima analisi una forma di virilità, o per meglio dire di fallocrazia. Il ragionamento di Malaparte, dalle parti alte della materia cerebrale, scivola direttamente a quelle basse, di meno nobile consistenza:

“Non può essere, infatti, per un puro caso che i toscani siano sempre stati un popolo libero, il solo, in Italia, che non abbia mai sofferto schiavitù straniera, e si sia sempre governato da sé, con la propria testa o con le proprie palle: s’intende con le sei palle dei Medici, che eran tiranni, ma avevan le palle toscane”.

Che è, a leggerla con un minimo di attenzione, una rischiosa affermazione in cui si stabilisce l’equivalenza piuttosto disdicevole delle teste e delle palle.

Se i toscani furono sempre senza padroni (prendendo ovviamente l’asserzione con le pinze della storia), i siciliani invece sempre ebbero padroni, cioè dominatori e invasori che si avvicendarono di epoca in epoca. E a poco a poco divennero la somma e la stratificazione antropologica di tali dominatori. Sempre tuttavia considerandosi superiori a essi, pervicacemente ritenuti altri da loro.

Servitori, insomma i siciliani, che si supponevano più furbi dei loro padroni. Talora anche in grado, sebbene raramente, di scrollarseli di dosso con una rivolta o una sollevazione popolare. Con un Vespro o con un Quarantotto.

Malaparte raccoglie la leggenda secondo cui un tricolore venuto chissà come dalla Sicilia era finito tra gli stracci di Prato. Non un qualunque tricolore, ma “la bandiera che le donne italiane di Valparaiso, nel Cile, avevano offerto a Giuseppe Garibaldi, quella stessa che Schiaffino da Camogli stringeva alta nel pugno a Calatafimi, e sparì con lui nella mischia”. La “più gloriosa delle bandiere italiane” ridotta a logoro e lurido cencio smarrito tra gli stracci di Prato, la città che degli stracci ha fatto la propria miniera e la propria ricchezza e “dove tutta in stracci, va a finire la storia d’Italia”.

Amarissimo destino, è vero, che in fondo è metafora dell’impresa garibaldina tutta e dei garibaldini stessi, trattati infine, dopo tante vittorie, come rifiuti da gettare nella pattumiera della storia e del nuovo regno.

Ma ancora più amaro forse è il destino della Sicilia, il luogo fatale in cui tutte le bandiere del mondo sono state issate e ammainate, solo per diventare in ultimo miserabili stracci.

 

* Curzio Malaparte, “Maledetti toscani”, Milano, Adelphi, 2017