Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
06/02/2019 06:00:00

Costanza d'Altavilla, l'ultima dei Normanni

di Marcello Benfante

 

Col romanzo storico abbiamo un po’ tutti una certa familiarità, se non altro scolastica. Grazie a Manzoni e ai suoi intramontabili “Promessi sposi”, soprattutto, almeno per quanto riguarda l’Italia. Oppure grazie a Walter Scott, che ne è considerato il capostipite. Tutti, d’altronde, abbiamo amato le complesse architetture storico-avventurose di Alexandre Dumas e di Victor Hugo. E in Sicilia, ma non solo, ci siamo voluttuosamente lasciati intrigare dalle epopee semileggendarie di Luigi Natoli e dei suoi feuilletonistici Beati Paoli (che non a caso fu Umberto Eco, a sua volta felicemente dedito alla pratica del romanzo storico, a consacrare presso il grande pubblico nazionale).

Ma può la storia, intesa rigorosamente come genere saggistico, come disciplina scientifica, assumere nella sua esposizione, magari in minime dosi, i tratti e i colori del romanzo? Essere cioè anche fabula e intreccio che ubbidisce, almeno parzialmente, alle regole stilistiche della narrativa pura?

Certo, verrebbe da rispondere d’acchito. Basti pensare che la narrazione consiste proprio in una storia. Raccontami una storia, diciamo, soprattutto da bambini, per assecondare il nostro bisogno naturale di ascoltare vicende radicate nel passato o in quella sua trasfigurazione che è il mito. O, di contro, esclamiamo con irritazione o semplice incredulità, “Non raccontarmi storie”, ossia frottole, al nostro interlocutore un po’ visionario che vorrebbe spacciare per veri e reali i frutti della sua immaginazione.

Pasquale Hamel, direttore del Museo del Risorgimento di Palermo, nel suo ultimo lavoro, “Costanza d’Altavilla. Biografia eretica di un’imperatrice” (Rubbettino, pagine 134, euro 14) pare essersi posto l’ambizioso obiettivo di invertire i termini del problema: non un romanzo che si attiene ai fatti storici, bensì un severo saggio storico che tuttavia assuma e comprenda il piglio arioso e drammatico del romanzo.

Non certo, ovviamente, per fare una storia romanzata che in qualche modo ricada nel dominio arbitrario e retorico della fiction e delle sue invenzioni. Ma al contrario per dare vita e anima a quel fattore umano, individuale e personale, che spesso l’asettico andamento documentale tende a seppellire sotto il dato oggettivo.

Costanza d’Altavilla, d’altronde, è anche un personaggio letterario, oltre che storico: “non solo una donna ai vertici del potere ma anche una delle figure femminili più interessanti del Medioevo al punto da essere richiamo fascinoso letterario per poeti e scrittori”.

Un alone leggendario circonfonde la sua figura non priva di misteriosi risvolti. Dante ne parla nel terzo canto del Paradiso, il canto di Piccarda Donati, ma anche di Costanza, ossia di quelle anime pie che non hanno potuto adempiere i loro voti a causa di una violenza di cui sono state vittime, e che ora appaiono in guisa di immagini specchiate, come “per vetri trasparenti e tersi”.

È Piccarda stessa a introdurre la splendente figura di Costanza:

 

“Quest’è la luce della gran Costanza

Che del secondo vento di Soave

Generò il terzo e l’ultima possanza” (vv. 118-120).

 

Ossia, al secolo, la figlia postuma di Ruggero I d’Altavilla e sposa dell’imperatore Arrigo (o Enrico) VI (figlio di Federico Barbarossa) da cui nacque Federico II di Svevia (Soave, dal tedesco Schwaben), il terzo e ultimo imperatore (vento, cioè potenza) del Sacro Romano Impero, almeno nella concezione dantesca di cui l’Italia, giardino dell’impero, è parte integrante e fondamentale.

Dante fa sua la tesi secondo cui Costanza si sarebbe votata alla vita monacale, da cui sarebbe stata distolta, in forza di una superiore (ma per alcuni profana) Ragion di Stato, per unirsi in matrimonio a Enrico, nell’ottica dinastica di consolidare i destini della casata normanna.

La vicenda, così densa d’implicazioni politiche, di cui si è pure occupato il Villani nelle sue “Cronache”, perviene al poema dantesco epurata da ogni scoria polemica a maggior gloria di Costanza.

Tuttavia, tale violazione del ritiro monacale di Costanza non trova adeguati riscontri documentali, e anzi sembra confliggere con l’amorevole devozione che l’ultima regina normanna ebbe nei confronti del suo sposo regale, nonostante certe, poco credibili, accuse di uxoricidio (l’improvvisa morte di Enrico a Messina nel 1197 diede campo a sospetti di un possibile avvelenamento, forse ordito dalla stessa regina).

Insomma, come il marcio in Danimarca, c’è un po’ di giallo in questa storia dalle policrome declinazioni, che a volte vira su più gotiche e fosche sfumature.

Nella tessitura meta-narrativa di Hamel, nel paradigma indiziario della sua ricerca, affine per certi versi a certe indagini microstoriche di Carlo Ginzburg, le fonti attestate si contaminano (e arricchiscono) continuamente di ipotesi, illazioni, persino insinuazioni pregne di un’aura leggendaria e letteraria.

Sono divagazioni in cui lo storico professionista (di cui ricordiamo studi quali “Breve storia della società siciliana” o “La congiura della libertà” o ancora “Mediterraneo da barriera a cerniera”) allenta appena un po’ la briglia dell’immaginazione, con il concorso del lettore stesso, reso partecipe di tale procedura investigante attraverso il ricorso all’analessi (“Ma facciamo un passo indietro”) o all’immedesimazione empatica (“Mettiamoci, a questo punto, nei panni della principessa e immaginiamo quali emozioni…”).

Il libro in tal modo assume uno sviluppo coinvolgente, sollecitando una partecipazione non solo intellettuale, ma (ad adiunvandum) anche emotiva, in cui opera l’immaginazione, talvolta l’indignazione, il prendere parte, lo schierarsi, il divenire contemporanei e consentanei all’oggetto trattato.

Bisogna naturalmente che tutto poggi su basi solidissime. È semmai la crepa riscontrata nelle fonti, una certa lacuna nei fatti accertati, la spiazzante fessura tra una testimonianza e un’altra un po’ difforme, a legittimare il ricorso alla supposizione integratrice o suppletiva, alle congetture più affascinanti, ovvero a un certo grado di controllata fabulazione.

Costanza nacque a Palermo il 2 novembre del 1154, da Ruggero II e da Beatrice di Rethel, nobildonna francese.

Il fatto che il padre fosse morto otto mesi prima, diede luogo a molti dubbi e sospetti, di cui troviamo tracce anche in Boccaccio, insieme alla leggenda della monacazione e alla funesta profezia di Gioacchino da Fiore.

A Costanza, il Boccaccio dedicò uno dei centosei cammei biografici del suo “De mulieribus claris”, opera minore in lingua latina del 1362, ispirata al “De viris illustribus” di Francesco Petrarca.

E Hamel, come un detective, ancorché disincantato, di queste tracce dà doverosa notizia e obiettivo giudizio: “Il Boccaccio, di questa presunta monacazione, fa un racconto, a suo modo dettagliato, ma pieno di evidenti incongruenze e di fantasie letterarie”.

I campi di azione della storia e del romanzo sono quindi ribaditi con imprescindibili chiarezza e distinzione.

Ma è tuttavia la storia stessa, ossia le contraddizioni della vita, a consentire che il dubbio, un certo ragionevole scetticismo, quel fantastico maieuta che è il sospetto, indaghi su certi conti che non tornano o certi fatti che non si spiegano del tutto.

È il caso, per esempio, della plateale venuta al mondo di Federico II a Jesi il 26 dicembre 1194. “Una nascita avvolta nella leggenda, carica di riferimenti simbolici e di lati oscuri che, per secoli, hanno affascinato la memoria collettiva”, scrive Hamel.

Vi sono molti punti controversi in questo evento di straordinaria importanza storica, che da sempre hanno suscitato numerose e calunniose perplessità.

Perché Costanza, donna ormai matura e per i tempi quasi anziana, affronta un viaggio così lungo e duro, così pericoloso e sconsigliabile, soprattutto per il suo stato di avanzata gravidanza? E perché decide di partorire il suo primo figlio in una tenda sotto lo sguardo vigile di notabili, dottori e popolane?

Qual è la ragione di questo “teatrale esporsi allo sguardo curioso della gente per un evento, giudicato dalla cultura del tempo, così intimo”?

Pare evidente che Costanza voglia spettacolarizzare il parto per sottolinearne l’aspetto straordinario e finanche miracoloso. Altre cronache coeve danno una versione diversa del fatto, che ovviamente alimenta ulteriormente le incertezze: Costanza esibisce il bimbo alla finestra e lo allatta di fronte alla folla giubilante.

Non stupisce quindi che circoli quasi subito una teoria dell’inganno e del complotto secondo cui Federico altri non era che il figlio di un “beccaio” del posto, spacciato fraudolentemente per l’erede al trono imperiale.

Tutta materia, potremmo dire, particolarmente adatta a un formidabile gossip storico, ma che Hamel utilizza sapientemente per dare corpo e spirito, rilievo e prospettiva al complesso ritratto di Costanza: “grande donna”, talora fredda fin quasi all’impassibilità, talaltra appassionata, glaciale sangue nordico temprato al fuoco siculo, sempre comunque risoluta e coraggiosa, assolutamente consapevole del suo ruolo, delle sue prerogative, del suo compito storico come anche del suo non facile destino di ultima dei Normanni sul trono di Sicilia.

Ma, insieme a lei, Hamel tratteggia un’intera galleria di personaggi, come in un dramma corale: l’efebico e megalomane Guglielmo II, il generoso e sfortunato Tancredi, il sadico e scellerato Enrico, con sullo sfondo una folta schiera di comprimari. E focalizza luoghi, come la “strategica Palermo”, la Napoli ora tenace e ora indifferente, la Salerno infida e ingannatrice, o fatti secondari, come certe sanguinarie efferatezze da film dell’orrore.

Eppure, in questa dovizia di particolari, Hamel riesce sempre ad ottenere un’efficacissima sintesi, soffermandosi sul dettaglio, laddove è utile alla narrazione, ma sorvolando invece su tutto quello che la appesantisce e intralcia.

Si indovina allora che il testo è il risultato conclusivo di un’escavazione, di una sottrazione sistematica, non di peso specifico, ma di materia inerte.

Il cavare metodologico caro a Sciascia, insomma, tipico dei suoi asciutti romanzi-saggi. E si comprende inoltre in cosa consista veramente la “fatica” sottolineata nei ringraziamenti finali. È la fatica del togliere, del cercare l’essenziale, per pervenire a una felice snellezza, a un testo di misurata e calibrata brevità.

Fatica in primo luogo stilistica, sforzo di mantenere un ritmo, un passo, di pervenire al cuore pulsante del racconto.