L’avvocato della famiglia Manca non ha dubbi. Per ottenere tutta la verità sull’omicidio di Attilio Manca “occorre un pentito di Stato, una giustizia eguale per tutti, una magistratura coraggiosa e un’opinione pubblica non distratta”. L’investigazione di Antonio Ingroia sulla parte oscura del nostro Stato parte da lontano, negli anni in cui era ancora un magistrato: dalle indagini palermitane sui “Sistemi criminali”, fino a quando ha fondato il pool sulla trattativa Stato-mafia; sa bene che “chi tocca quei fili o muore, o viene professionalmente annientato”. Ed è altrettanto consapevole che questa è “la vera ragione del ‘prudente immobilismo’ della magistratura italiana”. La revoca della sua scorta è la risposta più eloquente di uno Stato che non vuole farsi processare per i propri scheletri negli armadi. Uno di questi riguarda indubbiamente il caso del giovane urologo trovato morto a Viterbo la mattina del 12 febbraio 2004. Nel giorno del 15° anniversario della morte di Attilio Manca, Ingroia analizza quindi le estreme difficoltà di questo caso giudiziario, per poi rivelare una novità. Nelle prossime settimane assieme al collega Fabio Repici presenteranno alla Direzione nazionale antimafia un’istanza formale per chiedere che “il delitto Manca sia oggetto delle indagini del pool sulle stragi, così che la Procura Nazionale possa svolgere un prezioso ruolo di ‘stimolo’ nei confronti delle Procure competenti affinché la verità venga accertata”.
Avvocato Ingroia, dal momento in cui lei ha affiancato l’avv. Repici nella difesa dei familiari di Attilio Manca si sono succeduti, uno di seguito all’altro, due esiti giudiziari relativi al caso Manca: la sentenza di Viterbo che sostanzialmente condanna l’unica imputata e definisce la vittima un tossicodipendente; e successivamente l’archiviazione del Gip di Roma che ha accolto la richiesta della procura capitolina. Quali sono state le peculiarità di questi due risultati e perché si sono verificati?
Il perché si spiega con due concetti semplici ma agghiaccianti: la comodità del pregiudizio minimizzante e l'assenza di coraggio da parte della magistratura oggi prevalente in Italia.
La magistratura, viterbese e romana, aveva due strade davanti: la prima, quella più comoda e “promettente” in termini di carriera e di omologazione nel “gregge”, che vuole collocare il “caso Manca” come un caso ordinario di morte accidentale da tossicodipendenza; e la seconda, più ardua, complicata, “rischiosa” per la carriera del magistrato di turno e per l’“immagine” dello Stato, che avrebbe chiamato in causa responsabilità istituzionali e l'ennesima conferma della ricostruzione consacrata positivamente dalla sentenza di condanna della Corte d’Assise di Palermo nel processo “Trattativa Stato-mafia”. La magistratura laziale ha scelto la prima strada, quella più comoda, incurante di tutte le inoppugnabili risultanze che ne evidenziano l’insostenibilità logico-probatoria e che rafforzano la tesi dell'omicidio di “matrice Stato-mafia”. Tutto il resto (condanna della Mileti, archiviazione del delitto Manca, rifiuto di riesumarne la salma, delegittimazione dei pentiti che parlano dell’omicidio Manca come delitto di Stato, incriminazione per calunnia perfino di uno dei suoi difensori di parte civile, e poi condanna di quest’ultimo in sede civile per diffamazione degli inquirenti etc.) ne è una conseguenza.
Da Antimafiaduemila