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09/04/2019 06:00:00

Attilio Bolzoni: "La mafia torna ad essere "amica" dello Stato. L'antimafia è indietro..."

 di Marco Marino

 

Comincia con L'Ora, il giornale palermitano che registrava, con articoli e foto, il numero di morti ammazzati dalla mafia. Una parola, la parola “mafia”, che per molti non esisteva nemmeno, che tanti non avevano mai letto sui quotidiani o preferivano non leggerla, e quindi un realtà che non poteva certo costituire un problema per questa nostra terra di Sicilia.

Una vita di parole, la sua, che hanno registrato verità che nella coscienza della gente si sono sedimentate molto lentamente: la mafia esiste, fa traffici con alcuni organi dello Stato, la mafia uccide, scompare, si trasforma, ritorna. La sua carriera, dal 1982 come corrispondente a Palermo di Repubblica, la lunga serie dei suoi articoli, dei suoi libri, hanno attraversato l'Italia prima e dopo il punto di non ritorno segnato dalle stragi del 1992. E, ancora oggi, non smettono di raccontare cosa accade, al di là dei veli di banalità e ipocrisie. Lui è Attilio Bolzoni e da martedì 9 aprile inizia, in Sicilia, un viaggio che ripercorre le tappe di quella sua carriera, discutendo e presentando alcuni suoi libri che hanno fatto la storia del giornalismo in Italia.

 

Questo il calendario:

 

Martedì 9, a Salemi ore 10, al Liceo Classico Francesco D’Aguirre con Uomini soli (Melampo); poi alle 18 a Castellammare al Teatro Apollo con Il padrino dell’antimafia

 

Mercoledì 10, a Marsala ore 17, al Convento del Carmine, con La giustizia è cosa nostra (Glifo Editore)

 

Giovedì 11, a Trapani ore 19, alla Libreria del Corso con Il Padrino dell’antimafia (Zolfo Editore)

 

Venerdì 12, a Palermo ore 19, alla Libreria Modusvivendi con Il Padrino dell’antimafia (Zolfo Editore)

 

Per introdurci a queste fitte giornate di incontri, abbiamo voluto conversare con Bolzoni dei suoi ultimi lavori.

 

A più di vent’anni dalla sua prima edizione (1995) hai voluto ripubblicare La giustizia è cosa nostra aggiungedovi una postfazione in cui scrivi che “c’è stato un ritorno al passato della mafia siciliana che si è riappropriata della sua vera natura, non in guerra contro lo Stato ma «amica» dello Stato. E c’è uno Stato che ha perduto la «tensione» che aveva manifestato all’indomani dei massacri, uno Stato sempre più distratto con il passare del tempo nella decifrazione della realtà criminale italiana”. Perché è successo? Com’è possibile che stia accendendo?

 

È successo perché lo Stato ha ripreso i suoi ritmi di sempre. Quella parentesi dei venticinque anni corleonesi, quella stagione drammatica di sangue, bombe, stragi, è servita a regolare dei conti politico-criminali. Lì lo Stato, in quei venticinque, quasi trent’anni ormai, ha mostrato tutta la sua forza contro quella mafia di natura terroristica e ha disarticolato la sua struttura militare, quella dei corleonesi. E non a caso, se escludiamo Matteo Messina Denaro, sono tutti a marcire nelle segrete del 41 bis. Ora sta succedendo qualcosa che gli esperti chiamano “l'inabissamento della mafia”. È un'espressione che a me non piace. La mafia non si è “inabissata”. La mafia è tornata sé stessa. E adesso di fronte a sé ha uno Stato che, nonostante abbia mostrato i muscoli in quella stagione del “dopo stragi”, è ritornato lo Stato di sempre, che non ha un unico blocco, perché ci sono pezzi di Stato che reagiscono contro le mafie e altri pezzi di Stato che con le mafie stringono accordi. Ci sono degli organismi criminali, in Italia, che hanno preso altre forme, non hanno più la faccia sconcia di Totò Riina o dei corleonesi, e sono ritornati quelli di sempre, che si mischiano, che non sono immediatamente riconoscibili. Così com'erano negli anni Sessanta e Settanta: si confondevano in mezzo alla società, puntavano a entrare negli apparati, a proporre accordi e non scontri.

 

Ed è così che nasce il caso Montante?

 

La vicenda Montante, al di là della sua funzione processuale, è esattamente ciò che accade alle mafie dopo la stagione delle stragi: apparati dello Stato che dialogano con classi pericolose. E quali sono le classi pericolose in Italia? Le mafie. Tu pensa un siciliano che era nel cuore di un boss di Cosa nostra, una capo mandamento di Serrodifalco, Paolino Arnone, consigliere numero due della Cupola del tempo. Questo siciliano, quindici anni dopo, diventa misteriosamente il faro dell'antimafia italiana: è un delitto perfetto.

 

E’ uno di quei fenomeni che chiami “mafie incensurate”...

 

Sono “mafie incensurate” perché non hanno il bollino dello Stato. Che ha fatto lo Stato con questi organismi criminali? Li ha coccolati. Capi di stato maggiore dei carabinieri, della finanza, ministri dell'interno, capi della polizia, due o tre capi della DIA, un codazzo osceno di prefetti e di questori hanno assecondato l'ascesa e favorito la scalata al potere di personaggi come Montante. Nel silenzio assoluto. Montante è una sorta di campiere dei nostri tempi, un regolatore del traffico che si sarebbe dovuto affacciare sulla scena con una faccia molto più rassicurante dei campieri degli anni Cinquanta. Diciamo che hanno sbagliato persona, perché con attori ben più discreti quest'operazione sarebbe riuscita. Tutti parlano delle trattative di trenta, quarant'anni fa - papelli Riina le stragi - quando si fanno accordi alla luce del sole coi protocolli di legalità, tra esponenti delle classi pericolose, Montante in questo caso, e pezzi dello Stato. Tutto sotto i nostri occhi senza nasconderci niente.

 

Nel tuo nuovo libro, Il padrino dell’antimafia, ti cali nella vicenda Montante raccontandola in prima persona. Pagina dopo pagina, lungo il corso delle tue indagini, sembra quasi che stiate ingaggiando un corpo a corpo, tu e Montante.

 

Non è un corpo a corpo. Io non ho cercato di fare corpo a corpo con nessuno. Sono rimasto schiacciato, impaurito, da quello che ho scoperto mese dopo mese. Ci sono inciampato in questo caso. Non mi fa onore, da questo punto di vista. Non è che io ho capito di che si trattava. Probabilmente perché ero lontano dalla Sicilia, probabilmente perché non ho seguito tutte le fasi, c'è stata infatti una mia discrezione iniziale. Ho scritto un pezzo, due pezzi, tre pezzi e mi sono accorto di essere scivolato in una storia che ignoravo. E passo dopo passo l'ho scoperto. Il corpo a corpo è stato da parte sua. Io mi sono trovato coinvolto in questo corpo a corpo. Me ne sono accorto dopo i primi tempi che c'era qualcosa che non funzionava e che stavo entrando in un vero tritacarne. Mi ha salvato il mio mestiere, mi ha salvato il mestiere del giornalista.

 

Ti ha salvato il mestiere del giornalista. Che dovrebbe essere lo stesso dei giornalisti a cui dedichi il tuo libro, quelli “che si sono fatti comprare o che strillano tanto contro le mafie straccione e si sono tenuti prudentemente alla larga da questa storia”.

 

Scrivono di mafie straccione, di mafie degli emarginati, scrivono e pestano su quelle mafie che lo Stato ha già schiacciato e giustamente continua a schiacciare. Quando parli del boss x o y, è facile per tutti scrivere, copi e stracopi gli atti giudiziari, e li incolli, e ti presenti al pubblico inconsapevole come giornalista d'inchiesta. Io non penso di essere un giornalista d'inchiesta, io penso di essere semplicemente un giornalista che alcune volte il lavoro gli viene dignitoso e altre, fra mille difficoltà, un po' meno. Però tutti questi giornalisti d'inchiesta che vedo sono … giornalisti embedded, “al seguito”, e sono giornalisti filogovernativi, che scrivono dell'ovvio, del banale che ancora dopo quarant'anni scrivono “La mafia è una montagna di merda!”. Che si vergognino. Lo poteva dire il povero Peppino Impastato, quarant'anni fa, che era solo, disperato, con il capo mafia a casa e l'altro capo mafia a cento passi. Adesso c'è il dovere di studiare, di inquadrare, di capire. E questi ancora dicono “La mafia è una montagna di merda!”. Pure i mafiosi gridano “La mafia fa schifo!”... Mentre nei decenni passati tu potevi essere giustificato quando non capivi le trasformazioni della mafie, perché non avevi sufficiente conoscenza, con tutta la conoscenza e il sapere che abbiamo oggi grazie alle persone che non ci sono più, che hanno lasciato un deposito di sapere enorme, tu hai il dovere di elaborare, di conoscere, di collegare. Questo è l'obbligo del giornalista.

 

A Salemi coi ragazzi del Liceo parli di quelle persone che non ci sono più, Falcone Borsellino La Torre Dalla Chiesa. Gli uomini soli. E se oggi dovessi dire chi sono gli uomini soli, a chi penseresti?

 

Penso a Nicola Borzi del Sole 24 Ore che ha scoperto tutte le magagne del suo giornale e adesso si ritrova indagato a Roma per violazione del segreto di Stato perché ha scoperto che Banca Nuova era la centrale dei servizi segreti. Ma chi ne scrive? 

 

Alla termine di questa nostra conversazione resta aperta una domanda: chi sorveglierà i sorveglianti stessi? I paladini dell’antimafia, le associazioni antiracket, Libera...

 

Il rilievo che faccio è che non hanno capito, non hanno gli strumenti culturali per decifrare quello che è accaduto e sta accadendo. Ti faccio un esempio: come posso io imparare qualcosa da Libera, in tema di mafia e di antimafia, quando questi hanno fatto protocolli di legalità, anche dopo che venivano scoperte le carte su Confindustria? Che cosa mi deve insegnare Libera? Perché uno può sbagliare ma tutti i silenzi che ci sono stati negli ultimi quattro anni da parte di Libera su Confindustria e sui paladini della legalità, Lo Bello e Montante, sono veramente significativi. Non c'è un'accusa vera e propria, solo la presa d'atto che questi sono indietro di venticinque anni.