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27/04/2019 06:00:00

Memoria, viaggio, racconto: la mostra di Ferdinando Scianna a Palermo

 di Mario Valentini

 

Sei lì alla cassa, hai appena pagato l'entrata. La ragazza dei biglietti ti fa spendere altri due euro per l'audioguida. Le basta poco per convincerti. Le basta dire: «si sente Scianna stesso che racconta». Vinci la tua consueta avversione per ogni sorta di guida, umana o meccanica, che in un museo voglia "spiegarti" un'opera. Pensi: "Bene, ascoltiamolo Scianna, intanto che guardiamo le foto". Quando sei in sala accendi il marchingegno pigiando un bottone: «Sono Ferdinando Scianna. - si sente - Grazie di essere venuti alla mia mostra».

La visita comincia come inizierebbe un'autobiografia: «Sono siciliano. Sono nato a Bagheria, vicino Palermo, il 4 luglio del '43, a mezzogiorno».

L'audioguida non propone una "spiegazione" delle fotografie ma un racconto fatto ad alta voce. Ha una sua fisionomia letteraria in grado di guadagnarsi uno spazio autonomo rispetto alle foto stesse. Sa ritagliarsi una sua dignità non vicaria, non del tutto subordinata. Capisci che parole e immagini coesistono quasi alla pari: si danno il cambio nel costruire un racconto.

Intanto ti accorgi che quel racconto l'hai già letto o sentito. Un rapido giro in quella prima sala e, su un lungo pannello ondulato che sta proprio al centro, ritrovi estratti da un libro che conosci bene:  Quelli di Bagheria, del 2002, pubblicato da PelitiAssociati.  Un piccolo capolavoro: l'album di una famiglia talmente allargata da comprendere un intero paese, costruito anche attraverso le foto non professionali di uno Scianna giovanissimo, sedicenne, ai primi tentativi con il mezzo fotografico. Un libro che ricostruisce la memoria di Bagheria attraverso uno scavo personale nei ricordi e nelle immagini d'archivio del fotografo. Pregevole è il lavoro sulle immagini: talvolta dimesse e quotidiane, di natura quasi personale o privata, riproposte senza soggezioni gerarchiche rispetto agli scatti più ambiziosi e professionali. Ma pregevole è anche la parte testuale: oltre ai frammenti di ricordo, sono belli perfino gli elenchi dei nomi di persone del paese, ripercorsi così, alla rinfusa, in una sorta di operazione in cui la memoria si fa acustica e magica presenza capace di resuscitare un mondo scomparso nelle spire del tempo.

 

Ecco dunque il tema della prima sala, della prima sezione dell'esposizione: è Memoria, e si articola in tre sottoinsiemi. Oltre a Bagheria, di cui si è appena riferito: Feste e Sicilia.

La parte sulle Feste si impone all'attenzione, anche per la sua importanza storica. Il nucleo principale di queste fotografie deriva infatti dal libro Feste religiose in Sicilia del 1965, che rappresenta l'esordio assoluto di Scianna nella fotografia, a circa ventritrè anni. Esordio che avviene nel segno di Leonardo Sciascia, che fu coautore di quella pubblicazione.

Il libro fu accolto da accese polemiche, reazioni indignate, soprattutto in seno alla Chiesa o negli articoli di giornalisti e di intelletuali ad essa vicini. La descrizione che Scianna e Sciascia danno della religiosità dei siciliani è corrosiva: essa appare tutt'altro che intima e composta.  Scianna evita di fotografare le feste più note e turistiche, segue le meno "toccate e restaurate e contaminate da quelle nefaste associazioni che ora anche nei paesi sorgono con l'intento di chiamare o incrementare il turismo" (così Sciascia nella sua nota a margine delle foto, che ora si può rileggere in La corda pazza, Adelphi).

Scianna fotografa le pratiche cerimoniali con un taglio carico di contrasti tra buio e luce, che danno ai rituali una connotazione drammatizzata, accentuando l'aspetto barbarico e profano delle festività religiose rurali. Mostra una gran quantità di volti di uomini, donne e bambini illuminati da ceri che ne rischiarano i tratti grazie alla diretta esposizione alla luce, lasciando in un'ombra profonda tutto ciò che rimane ai bordi. Fotografa uomini incappucciati avvolti in una nebbia notturna; bambini manipolati, quasi forzati a partecipare ai riti, costretti in abiti impropri, issati sui carri cerimoniali, forse obbligati a baciare le reliquie dei santi controvoglia; uomini che si accasciano sulla scalinata di una chiesa; donne che tagliano una folla scomposta gridando.

È uno sguardo laico, che smaschera le molte contraddizioni di quel tempo di festa, mostrando una religiosità fortemente ambigua. Ma, forse, il solo racconto per immagini non avrebbe sollevato lo stesso tipo di polemiche se non fosse stato accompagnato dal lungo testo di Sciascia.

È accostando a quelle foto il testo di Sciascia che si può recuperare la forza polemica che doveva avere quel libro, nel 1965, non appena fu pubblicato. Bastano passaggi come questi: "Questo modo, assolutamente irreligioso, di intendere e professare una religione che pure è fermamente codificata in ogni atto del culto interno ed esterno, ha radice in un profondo materialismo, in una totale refrattarietà a tutto ciò che è mistero, invisibile rivelazione, metafisica". E poi: "E si può dire, dei siciliani di fronte alla religione cristiana, quel che Saint-Beuve diceva di Montaigne: che poteva benissimo essere apparso come un buonissimo cattolico, ma il fatto è che non era per niente cristiano. Personalmente, a noi i siciliani non sembrano nemmeno cattolici: ma forse abbiamo, del cattolicesimo, una visione più rigorosa di quella che hanno gli alti prelati, i quali proclamano (e fino all'anno scorso, da parte del cardinale arcivescovo di Palermo, in una lettera pastorale largamente discussa dalla stampa) cattolicissima la Sicilia".

Il testo di Sciascia, insomma, non si limitava a commentare le fotografie. Muovendosi in sostanziale autonomia rispetto agli scatti di Scianna, evidenziava un radicale materialismo profano nella diffusa religiosità  popolare siciliana, rivolgendo al mondo cattolico la critica di sostanziale ambiguità e mettendo in evidenza i rapporti tra Chiesa e potere, anche politico. Inoltre, portando alla luce una molteplicità di stratificazioni culturali (molte delle quali profane, comiche, paradossali) sottostanti il dettato canonico del rito, offriva della cultura popolare siciliana una lettura molto meno monolitica di quanto un diffuso senso comune fosse disposto a riconoscere, sottraendola all'egemonia culturale della Chiesa cattolica.

 

Oltre alla prima sezione dedicata al tema della Memoria, la mostra continua in altre due sale,  l'ultima delle quali molto grande, secondo una scansione che fa seguire alla Memoria i temi del Viaggio e del Racconto.

In tutto sono circa 180 scatti. La retrospettiva ripercorre l'intero percorso lavorativo di Scianna e, sebbene la scansione tematica coincida per larghi tratti con quella cronologica, proprone numerosi salti temporali, riprese a distanza e accostamenti di fotografie fatte in epoche molto diverse.

Sono tre i temi, dunque. Ma in fondo è uno solo. Perché l'ultimo, il Racconto, è come se implicasse gli altri due.

Fu per primo proprio Leonardo Sciascia, racconta Scianna, a chiarire la dimensione narrativa in cui già dagli esordi si muoveva la sua fotografia. Sebbene i suoi scatti di allora fotografassero i molti aspetti del mondo contadino siciliano, secondo Sciascia la sua non era una fotografia di tipo scientifico o mero strumento di conoscenza antropologica: era, appunto, racconto. Altri aspetti del lavoro di Scianna confermano questa attitudine. L'abitudine costante, che sempre più si è affermata negli anni, di affiancare alle immagini numerosi testi, nella convinzione che il mezzo fotografico non soddisfi mai tutte le esigenze necessarie a raccontare un luogo o a esaurire un tema (dice Scianna: «Chi l'ha detto che una fotografia vale mille parole? Non è vero...»). E ancora: l'aspirazione a pensare al libro come destinazione finale e ideale dei suoi reportage fotografici (sempre Scianna: «io avevo sviluppato una vera religione del libro. Per cui: il libro come  destinazione e il racconto come sfondo»). 

Racconto è termine che implica tanto il Viaggio quanto la Memoria. Il narratore infatti, insegna Benjamin, va rintracciato in due archetipi fondamentali: quello del contadino-stanziale e quello del mercante-viaggiatore. E se nella prima sezione, dedicata alla Memoria, il racconto di Scianna si muove proprio attorno alle radici contadine del mondo conosciuto nel corso dell'infanzia e della sua giovinezza a Bagheria,  nella seconda e terza sezione prende campo e si afferma in modo deciso l'esperienza del viaggio. Qui tutto muta e anche quando, dopo il 1966, l'anno della sua partenza per Milano, Scianna torna a fotografare la Sicilia, è sempre un nóstos, "il racconto di un ritorno", quello che in tutta evidenza ci troviamo a osservare. La Sicilia diventa una specie di Itaca, fotografata con sguardo filtrato dall'esperienza dell'allontanamento e di un lungo pellegrinare.

 

È Marpessa l'icona più emblematica di una Sicilia rivisitata da Scianna da una definitiva distanza («Sicilia ricordata. Vissuta all'imperfetto dell'obiettivo»). La top model olandese, fotografata nel 1987 in occasione di uno dei più celebri ritorni di Scianna nell'isola (la campagna pubblicitaria per Dolce e Gabbana),  si muove divertita e curiosa nei paesi di una Sicilia ancora per molti versi arcaica e contadina. La ritroviamo in una foto di gruppo con anziane signore di almeno cinquanta centimetri più basse di lei o in sottoveste nera sul letto in ferro battuto di una tradizionale stanza di una casa di paese o accanto a un animale squartato trasportato sulle spalle da un macellaio o dentro ai locali di un barbiere. Marpessa appare come una divinità aliena, piombata in Sicilia in quel 1987 da uno stratosferico ultramondo, segno di un altrove inassimilabile. Ma è anche capace, forse proprio per la sua divina natura, di ritrovarsi morbidamente inserita in un insieme estraneo eppure domestico, realizzando un vero e proprio ossimoro (figura retorica molto praticata da Scianna, a partire da titoli di suoi libri come Obiettivo ambiguo). O forse Marpessa è una proiezione in avanti? La sua estraneità divertita è solo l'anticipazione di un tempo già pronto, ormai quasi arrivato? La sua femminilità leggera e longilinea è già segno di una Sicilia totalmente trasformata? Una femminilità modernissima, sul punto di prendere definitivamente campo cancellando per sempre la tradizione?

Ancora una volta i testi, distribuiti nella sala a cucire tra loro le immagini, tessono una trama di racconti e di riflessioni grazie alla quale gli scatti fotografici trovano ulteriori specificazioni. Ad esempio, attribuiscono al viaggio il nome di "fuga" e dichiarano una definitiva, foscoliana, impossibilità del ritorno: «Per me, forse per tutta la generazione a cui appartengo, il tema del ricordo credo fosse presentissimo. Non soltanto sapevamo che saremmo andati via ma intuivamo anche che il mondo che stavamo per lasciare, anche lui sarebbe andato via, sarebbe scomparso per sempre. E così è stato. Il ritorno è diventato doppiamente impossibile: noi siamo cambiati e la nostra Itaca è scomparsa».

 

Se il ritorno è impossibile non rimane che il viaggio. I reportage da paesi lontani (Stati Uniti, Lourdes, paesi asiatici, Sud America) vengono riproposti per frammenti, talvolta addirittura attraverso singole foto, legate assieme da testi che ora tendono a esprimere più che altro riflessioni sull'atto del fotografare. Frammenti di autobiografia riemergono in passaggi come quelli che accompagnano le fotografie del Viaggio a Lourdes ("Una delle ultime cose che ha detto mia nonna, come rimpianto, è stato: «E non sono nemmeno andata a Lourdes!». Mia nonna è morta e io sono dunque andato a Lourdes al posto suo"). Ma anche di questo servizio non vengono riprodotte più di due o tre foto, e quella che più rimane nella memoria ritrae una scatola di cartone aperta solo a metà da cui escono delle statuette di madonne in preghiera. È dunque un dettaglio laterale, residuale, a diventare protagonista del racconto, non una scena madre di qualche evento miracolistico, né la rappresentazione diretta di chi parte in cerca di una soluzione alla disperazione. Non una frase declamata ma un leggero sussurro, quasi un dire in maniera sommessa è dunque il tono scelto da Scianna. La sezione intitolata America mostra una serie un po' più lunga di fotografie, pari solo a quella sui minatori di Kami, un villaggio delle Ande boliviane, e sul loro "vivere morendo". Sono serie di sei-sette foto circa, non di più.

"Il mio mestiere è fare fotografie e le fotografie non possono rappresentare le metafore. Le fotografie mostrano, non dimostrano", scrive Scianna nei cartelli che illustrano la sezione su Kami, quasi a volere affermare che il lavoro fotografico non può prescindere dal dato di realtà, che deve essere a servizio della cosa, del tema, del luogo indagato: è strumento di cattura di qualcosa che sta là fuori e si mostra.  

Ma intanto, mentre Scianna dichiara questa sorta di primato dell'elemento di realtà rispetto a un qualche intenzionale discorso soggettivo, le immagini e il montaggio "dicono" qualcosa di diverso: sembra vogliano un po' sottrarsi al reportage, rendendo lievemente opaco l'oggetto indagato. Il visitatore ha la netta impressione che ad essere centrale sia  lo sguardo selettivo del fotografo. O meglio, nemmeno proprio il solo sguardo: è un corpo in viaggio, con i suoi sensi e l'intelligenza in allerta, quello che attraversa uno spazio geografico specifico in un dato momento.

Perché più che un dato di realtà, è una strana qualità del tempo quella che Scianna imprime sulla pellicola. È vero, vien da pensare, le fotografie non rappresentano metafore, non dimostrano alcunchè. Ma ciò che queste fotografie mostrano non è un puro e semplice pezzo di mondo o un fatto. Esse rivelano qualcosa allo sguardo perché qualcosa del mondo si è rivelato a un obiettivo fotografico in un preciso istante. Un obiettivo ambiguo, appunto, e dunque opaco, che ruba all'inesorabile incedere e consumare del tempo tessere di futura memoria.

E quel che dà significato a un fatto, a un evento, (tra)mutandolo in storia narrata, è quasi sempre un dettaglio (o più d'uno). Il fatto in sé, l'evento, sarebbe inintellegibile se un'arte del dettaglio non restituisse l'emotività e il senso di un tempo/luogo attraversato, facendosi segno da leggere e da ripercorrere.

 

Una foto scattata da Scianna in Libano nel 1976, durante la guerra civile, può aiutare a chiarire meglio. È  il primissimo piano di un cecchino che punta il suo fucile verso qualche nemico esterno all'inquadratura. Sull'impugnatura del fucile, in posizione un po' laterale, si vede incastonata l'immagine di una madonna. La foto è una buona sintesi di un conflitto interreligioso tra appartenti a un identico popolo e a un solo Stato. E colpisce questo combattere e uccidere in nome di un'appartenenza religiosa, quell'effigie sacra e materna piantata nel fucile. Ma, al di là della superficie, al di là della testimonianza esplicita di un evento di guerra, se si osserva la foto con la dovuta attenzione, quanti pensieri attraversano la superficie di quello scatto! Per ogni pensiero un dettaglio.

Il cecchino imbraccia il fucile. Sullo sfondo, fuori fuoco, appena accennato, un edificio. C'è il Libano, la città di Beirut, ma come quinta abbastanza secondaria: uno scenario di guerra che in questa foto risulta quasi irrilevante. Il cuore della foto sta tutto in un primissimo piano nitido, saturo di particolari messi precisamente a fuoco. Lo sguardo dell'uomo pronto a sparare è proiettato verso fuori, va oltre l'inquadratura rimandando a un altrove in cui potrebbero anche trovarsi un uomo, una donna o un bambino che tra qualche istante potrebbero essere uccisi. Lo sguardo del cecchino è vigile, intensamente proteso verso il suo obiettivo. Ma non è il volto dell'uomo il centro della foto. Il fulcro dello scatto è certamente l'occhio del cecchino che prende la mira. È quello che attira l'attenzione prima di ogni altra cosa. Ma esso è solo il vertice alto di un triangolo che si chiude con la mano pronta a schiacciare il grilletto e, dalla parte opposta, con il volto della madonna in grande evidenza, sul calcio del fucile appoggiato alla spalla. Al centro, ad attraversare il triangolo, quasi come un segmento che unisca uno dei vertici a uno dei suoi lati, tutto il calcio del fucile fino al grilletto. Come dire che lo sparo che potrebbe uccidere da un momento all'altro qualcuno posto fuori dall'inquadratura si realizza in questa alleanza: dell'occhio che mira, della mano che preme il grilletto, dell'immagine sacra che ispira o giustifica quel gesto.

Ma ancora non basta, non è così semplice e chiusa la storia narrata. È una storia da un finale un po' più aperto e ambiguo di quanto non possa sembrare a una prima impressione. Se ti attardi a osservare ancora più a lungo l'immagine, un altro pensiero ti viene in mente. Che non uno è il volto ritratto in quella foto, ma sono due. E tutti e due hanno qualcosa da esprimere. Due volti in rapporto tra loro, in relazione, che comunicano cose diverse. Il volto del cecchino ha l'occhio aperto, rivolto verso fuori. Il volto della madonna è osservato da una posizione che risulta straniante. L'immagine, infatti, si dovrebbe guardare in verticale, ma è messa in posizione orizzontale. Spaia un po' l'armonia della composizione visiva dell'insieme, risultando elemento lievemente incongruo. Non puoi non fissarla e studiarla, perché innaturale, appunto. I suoi occhi sono chiusi e rivolti verso il basso, in un'espressione di mestizia. Certo è un'immagine muta, un dipinto. Come certi omertosi: non vede, non sente e non parla. Ma se avesse pensieri, se fosse viva, hai come il sospetto  che quegli chiusi e abbassati sarebbero un commento dolente allo sparo. Potrebbero disapprovare, quegli occhi: dispiaciuti e turbati. Insomma, per quanto l'immagine della Madonna sia tutt'uno con il fucile, con la mano che preme il grilletto, con l'occhio che mira, con l'azione di morte, essa stride, è anche in antitesi con tutto questo. Dopo averla osservata abbassare gli occhi e socchiuderli, se ritorni a guardare in faccia il cecchino, anche il suo sguardo ti sembra più triste, meno brillante di quanto non fosse sembrato prima, meno intento allo sparo, forse addirittura un po' malinconico.

 

Sei nell'ultima sala: quella dei reportage da luoghi lontani, delle narrazioni di eventi tragici della Storia. La sala dei servizi giornalistici, delle cerimonie mondane, delle fotografie di moda. Vai verso il fondo e a un certo punto tutti questi eventi della Storia sembrano quasi farsi da parte, rimpicciolire, ritrarsi. La guerra in Libano, lo sfruttamento dei minatori di Kami, la mortalità infantile a Makallè, la disperazione dei libanesi sbarcati a Brindisi, la povertà dei villaggi polverosi dello Yemen e ancora le sfilate di moda di Milano e Parigi, le foto di modelle o di attrici, a un certo punto cedono il passo ad alcune brevi sezioni in cui il dettaglio quotidiano perde la sua consueta lateralità per diventare assoluto protagonista. Ed ecco le sezioni dedicate agli oggetti, agli animali, agli specchi, al sonno.

Dare un tale spazio ai dettagli, a singoli particolari normalmente secondari o minimi all'interno di un servizio giornalistico o di moda, per farne materia di vero e proprio racconto, mi sembra sia una vera e propria dichiarazione di poetica. Significa voler rendere evidente quali siano i ferri del  mestiere che Scianna utilizza. Significa dichiarare che, appunto, dettagli carichi di emotività e di senso sono elementi di sintassi attraverso cui si costruisce un discorso fotografico. Sono, appunto, gli elementi essenziali grazie ai quali delle fotografie possono diventare Racconto.

 

Se oggi attraversiamo una restrospettiva come questa di Scianna tutta d'un fiato, è proprio per questa qualità del mostrare. C'è una coerenza che percepiamo dall'inizio alla fine, che fa di un fotografo un autore. Le foto raccontano, riescono ancora a farlo, anche quando sono del tutto inattuali. Quella Sicilia dell'infanzia che Scianna continua a ricercare nei suoi scatti appartiene davvero solo alla memoria. Ma è la memoria della sua generazione. La nostra generazione, di chi è nato dagli anni '70 in avanti, ha conosciuto un'altra Sicilia, che aveva perso la coerenza del legame con il mondo contadino. Abbiamo memoria precisa della violenza per strada negli anni della guerra di mafia. E il ricordo delle forze dell'ordine con i mitra spianati che controllano le macchine nelle vie d'accesso alle grandi città. Ricordiamo perfettamente quando, dodicenni, vedevamo ragazzi più grandi di noi farsi di eroina seduti sul marciapiede di una strada e poi camminare barcollando fino a finire accasciati a ridosso di un muro. Ricordiamo l'esercito mandato in Sicilia a presidiare i tribunali, soldati armati e con i giubotti antiproiettili che fanno ore e ore di guardia nei gabbiotti tirati su velocemente davanti alle abitazioni dei giudici. Al cinema, da ragazzi, ricordiamo di avere incontrato  magistrati che, qualche fila avanti a noi, si concedevano la visione di un film appena uscito, accompagnati da quattro-cinque uomini della scorta. Detestavamo chi, in malafede, stava lì a mugugnare perché – a suo dire- quegli uomini scortati toglievano serenità al loro svago.

Ricordiamo bene il rumore continuo di ambulanze nel silenzio della notte. E una campagna che via via si riduceva e progressivamente si urbanizzava. Anzi: la sparizione, proprio, della campagna ricordiamo. Che anno dopo anno veniva rapidamente soppiantata da decine e decine di complessi residenziali, molti dei quali rimasti non finiti. Ricordiamo brandelli di orti nel retro delle case di campagna o in riva al mare, in cui nel volgere di qualche stagione i filari di pomodoro venivano soppiantati da aiuole con piante ornamentali a formare giardini sempre più ammattonati. Le nostre infanzie a cacciare girini e lucertole sono state brevissime. Gli spazi aperti e selvatici potevano durare un anno al massimo. Dove l'anno prima, alle prime piogge, si erano formate grandi pozzanghere in cui eravamo andati a catturare girini, l'anno dopo c'era già lo scavo di un cantiere, e assi piene di chiodi, e recinti a impedire il passaggio. E le ficare su cui ci arrampicavamo irritando le gambe a causa di un lattice che portava prurito sono durate in tutto un paio di stagioni. Così, una volta cresciuti, le nostre fughe sono state senza rimpianto. I ritorni sono stati lunghi viaggi in treno per ben poco: le compagnie low cost hanno presto reso possibile un rapido andare e venire in aereo. Per chi è fuggito, o semplicemente partito, Itaca è stata talmente vicina da non averne nostalgia. E chi è tornato o rimasto ha fatto, e fa ancora, fatica a immaginare un altrove che sia davvero un altrove. Per noi la Sicilia è diventata un luogo come un altro. Ben poco, quasi nulla. E, soprattutto, ci viene difficile considerarla un qualche tipo di nostra appartenenza.

Per questo, se presentassi io una mostra di mie fotografie, che non ho mai fatto e che non saprei certo fare, potrei dire: «Sono Mario Valentini. Abito da vent'anni a Palermo, ho vissuto dieci anni a Bologna, sono nato Messina». Ma farei molta fatica a tradurre queste indicazioni anagrafiche in un qualche tipo d'origine. Sono siciliano? Boh, chissà, cosa importa! In Sicilia ci vivo, ne sono fuggito, ci sono tornato. Ma non appartengo certo a questa terra, né lei mi appartiene. Ci sopportiamo a vicenda, ecco tutto.

 

MARIO VALENTINI è nato a Messina nel 1971, ha studiato e lavorato a Bologna, ora vive a Palermo. Molti suoi racconti sono stati pubblicati in rivista (Il semplice, Fernandel, Il caffè illustrato, Mesogea, Margini), in diverse antologie, in riviste online (minima&moralia, zibaldoni, mesogeamag). Ha collaborato per diversi anni con l'edizione palermitana de la Repubblica.

Ha fatto parte del gruppo che realizzava Il Semplice, messo insieme e guidato da Ermanno Cavazzoni e Gianni Celati. Ha pubblicato i libri Voglia di lavorare poca (Portofranco, 2001), In certi quartieri (Mesogea, 2008), Come un sillabario (Mesogea, 2015), Così cominciano i serial killer (Mesogea, 2018), La minuscola (Exòrma, 2018).

 

Per tutte le informazioni sulla mostra: https://www.ferdinandoscianna.it/