Il fucile che il pentito Maurizio Avola ha fatto ritrovare un anno fa nella campagna catanese non sarebbe quello utilizzato dai killer per uccidere, 27 anni fa, a Campo Calabro, il sostituto procuratore generale della Cassazione Antonino Scopelliti. O meglio: la perizia che i magistrati della direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria hanno affidato alla polizia scientifica, parla di un’arma «troppo vecchia, ossidata e incrostata per poter eseguire qualsiasi tipo di esame scientifico» scrivono i tecnici della polizia.
La notizia pubblicata venerdì dal quotidiano «Gazzetta del Sud», piomba come un fulmine a ciel sereno sulle indagini che la procura reggina ha avviato da tempo, per identificare gli autori del delitto eccellente. Eppure esattamente un anno fa, in occasione dell’anniversario della morte del magistrato, il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, si erano detti certi che quel fucile fosse quello utilizzato dai killer. «Il ritrovamento è importante perché conferma importanti recenti intuizioni investigative» aveva detto Bombardieri. La perizia dice, però, molto altro. Le cartucce fatte ritrovare assieme al fucile dal pentito catanese, sono «completamente difformi da quelle ritrovate sul luogo dell’agguato e sul corpo del magistrato».
E ancora: «Nessun profilo biologico è stato possibile accertare né sul fucile ne, sulla borsa che lo conteneva». L’unica cosa che i periti sono riusciti ad accertare è il numero di matricola e questo potrebbe condurre all’identificazione del proprietario o almeno a chi ha acquistato l’arma. Si tratta di un fucile calibro 12 di fabbricazione spagnola, marca «Zabaleta Hermamos». Il ritrovamento dell’arma e l’autoaccusa di Maurizio Avola che ha affermato di aver fatto parte del commando di fuoco, hanno dato, nei mesi scorsi, una forte accelerazione all’indagine per identificare mandanti ed esecutori. La procura ha iscritto nel registro degli indagati 18 persone ritenute i mandanti dell’omicidio. Undici calabresi e sette siciliani tra questi anche il superlatitante Matteo Messina Denaro. E poi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e lo stesso pentito Maurizio Avola. Ci sono poi i capi storici delle ‘ndrine calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Pasquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio e Giuseppe De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Giuseppe Molinetti. Il magistrato Antonino Scopelliti fu assassinato il pomeriggio del 9 agosto del 1991 a Campo Calabro. Stava rientrando in paese a bordo della sua auto, una BMW nera, dopo una giornata trascorsa al mare. Due sicari in sella a una moto lo affiancarono e lo trucidarono.
Le indagini non hanno mai accertato chi fossero quei killer. Sicuramente, però, dissero allora i magistrati, uomini delle cosche della ‘ndrangheta. Nessuno avrebbe mai osato valicare i confini e uccidere un magistrato in Calabria se non ci fosse stato un «accordo» con la ‘ndrangheta. Si avanzò, quindi, l’ipotesi suggestiva di un «patto scellerato» tra la mafia e la ‘ndrangheta. Antonino Scopelliti avrebbe dovuto rappresentare in Cassazione l’accusa contro gli imputati del maxi processo di mafia a Palermo, istruito da Giovanni Falcone. Le indagini però hanno scritto una pagina diversa. Per i giudici che hanno indagato e processato 21 anni fa i vertici della Cupola di Cosa Nostra da Riina a Provenzano, Bagarella, Graviano, Pippo Calò e altri, quel «patto scellerato» non ci fu. La Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria ad aprile 1998 ha assolto i boss palermitani, annullando le condanne inflittegli in primo grado dalla Corte d’Assise reggina.
Determinanti all’epoca, per l’inchiesta, le dichiarazioni dei pentiti «storici» come Buscetta, Mannoia, Contorno, e i calabresi Lauro e Barreca. Tutti avevano ribadito il ruolo strategico assunto da Cosa Nostra nell’omicidio Scopelliti. I pentiti si soffermarono anche sul ruolo avuto da Totò Riina nella preparazione dell’assassinio. Secondo i pentiti, infatti, Riina chiese direttamente ai vertici della ‘ndrangheta il favore di uccidere Scopelliti, fornendo in cambio la propria mediazione per chiudere la guerra di mafia a Reggio Calabria: quasi mille morti in cinque anni. Il movente mafioso sembrò subito un’ipotesi di lavoro concreta. Le piste alternative come quella privata o locale furono scartate dopo un’attenta lettura. La perizia negativa sull’arma frena, oggi, ancora una volta, l’inchiesta su mandanti ed esecutori.